Salvator Rosa

Salvator_Rosa_Self_portrait

Di quella sua “nuova vaghissima maniera di far paesi e marine, non più certo vedutasi fino allora per l’Italia” parlava, ammirato, negli anni Settanta del Seicento, il fiorentino Filippo Baldinucci, autore di una celebre biografia dell’artista napoletano.

Grande innovatore della pittura di veduta, ed eccellente pittore di battaglie, nel solco della tradizione del maestro Aniello Falcone, Rosa sperimentò anche i soggetti cari al caposcuola napoletano Jusepe de Ribera, come i Filosofi,  le singole figure di Apostoli, il martirio di san Bartolomeo o dei mitologici Prometeo e Tizio, nonché la pittura a soggetto Bambocciante (scene di  banditi, esterni di osterie), per poi preferire la pittura allegorico-filosofica e di storia, quella che egli riteneva più idonea a rappresentare il suo genio. I posteri lo ricordano anche per le celebri ‘stregonerie’, per la produzione di satire poetiche e di un nutrito corpus di disegni. Il mito di Salvator Rosa, alimentato dal frainteindimento delle sue idee politiche, fu grande nell’Europa del Sei e Settecento ed egli ottenne anche il riconoscimento di precursore del concetto del sublime.

Nacque nel 1615 all’Arenella, allora villaggio fuori porta, oggi popoloso quartiere di Napoli. I suoi inizi artistici, seguiti agli studi condotti presso i padri Somaschi, lo videro al fianco dei cognati Cesare e Francesco Fracanzano, a loro volta perfettamente introdotti nel giro di Ribera, come ai seguaci di Aniello Falcone. Il rapporto con  Micco Spadaro fu, in effetti, fondante anche per comprendere le motivazioni del viaggio a Roma, dove Rosa si recò la prima volta a metà degli anni Trenta, per tornarvi più stabilmente sul crinale di quello stesso decennio. Nell’autunno del 1640 egli era già a Firenze, dove fu attivo per un decennio, al principio scandito dal successo sulla scena locale, conquistata dalla sua favella facile, dalle capacità istrioniche, dalla manica larga, e poi da amicizie profonde e sincere, testimoniate nel ricco epistolario. Egli ritornò a Roma nel 1649, avendo un’era di altri grandi successi professionali, ma anche di difficilissimi momenti personali, dovuti al carattere complesso e collimati nelle inimicizie di prelati della Santa Inquisizione, che gli costarono, indirettamente, la perdita dell’adorato figlio Rosalvo nella terribile peste napoletana del 1656.

Morì nella città dei papi nel marzo del 1673.