LEFT Avvenimenti

Arnaldo Pomodoro si racconta. Ricordando le esperienze di vita, i viaggi, gli incontri che hanno ispirato il suo lavoro. All’insegna dell’impegno civile. E di quella vitale voglia di sperimentare che continua ad alimentare la sua ricerca.

«Ho sempre sentito in me la necessità di un coinvolgimento concreto da un punto di vista sociale», racconta Arnaldo Pomodoro a Flaminio Gualdoni che lo intervista nel libro Vicolo dei lavandai, uscito il 7 giugno per le edizioni con-fine. Poeta della scultura che si è formato nell’antifascismo ha sempre rifiutato l’idea dell’artista chiuso nel suo studio, come torre d’avorio. Dal dopoguerra contribuendo alla rinascita del Paese con la creazione di opere di grande valore civile in spazi pubblici.

«Sono molto sensibile alla responsabilità dell’arte che, secondo me, ha un carattere etico: esprime non solo un autore e uno stile suo proprio, ma anche i motivi e il senso di una civiltà», commenta il Maestro. Che subito aggiunge: «L’apporto dell’arte allo sviluppo della società è fondamentale e lo è soprattutto in questo periodo di grande incertezza e di profonde trasformazioni: le opere d’arte sono un riferimento decisivo della percezione nello spazio-tempo in cui oggi viviamo. E proprio da questa consapevolezza è nata l’idea della mia Fondazione qui a Milano.

Un artista può aiutare a “curare” la città dal degrado e della perdita di identità?

Certamente, oggi c’è l’esigenza di ritrovare la vitalità e l’entusiasmo perla culturae per le arti. C’è bisogno di sviluppare un senso di vita in comune e una progettualità armoniosa, globale, proiettata verso il futuro.

Quando lei arrivò a Milano la città viveva un momento di straordinaria vivacità sul piano culturale e artistico. Un suo vicino era Lucio Fontana. Come lo ricorda e che memorie ha di quella stagione?

Ho incontrato Lucio Fontana nel 1954 aMilano, dove mi ero appena trasferito da Pesaro: fu lui a introdurmi nell’ambiente artistico milanese. Per tanti artisti più giovani Fontana è stato maestro nel comprendere le capacità e i percorsi di ricerca individuali attraverso il suo formidabile senso del nuovo: anche per me è stato come un padre che mi ha stimolato, incoraggiato, sempre seguito. Ricordo il suo sorriso così espressivo e ironico, quel suo modo di parlare con semplicità, ma sempre con grande acume. Si muoveva con gesti tanto vivaci ed espressivi che potevi vedere idealmente l’intreccio dei suoi segni, gli arabeschi costruiti con il  neon, da lui utilizzato come mezzo artistico prima di chiunque altro, a dimostrazione dello spirito inventivo che ha animato tutto il suo lavoro.

La sua arte è percorsa da un rinnovamento e da una tensione continua. Ad alimentarla è stata la sua esperienza di vita?

Sì, penso ad esempio al mio primo viaggio negli Stati Uniti, dove sono andato nel 1959, grazie a una borsa di studio del ministero degli Affari esteri. Quell’esperienza ha avuto un’importanza fondamentale.

L’impatto con lo spazio americano e con l’estrema vitalità che animava in quegli anni l’ambiente artistico è stato enorme. Ma il passaggio decisivo avviene nella saletta di Brancusi al MoMA di New York. È qui che ho una “folgorazione”: osservando le sculture di Brancusi sento che mi emozionano al punto di aver voglia di distruggerle e così le immagino come tarlate, corrose; mi viene così l’idea di inserire tutti i miei segni all’interno dei solidi della geometria, e cioè dentro un’immagine essenziale, pura, astratta.

Molto importanti nel suo lavoro sono la memoria, la storia, i segni che hanno lasciato le culture che ci hanno preceduto. Come nacque il suo interesse per le antiche scritture del Vicino Oriente e per le iscrizioni a caratteri cuneiformi che poi lei ha ricreato in alcuni suoi capolavori?

Ho sempre subìto il grande fascino di tutti i segni dell’uomo, soprattutto quelli arcaici, dai graffiti dei primordi alle tavolette mesopotamiche, quelli fatti per tramandare memorie e racconti. La ricerca sul segno, d’altra parte, emerge costante in tutto il mio lavoro. Si tratta di diversi elementi modulari, di serie di segni leggeri e ritmici: cerco, nei miei Papiri ad esempio, come nel gruppo di opere recenti intitolate Continuum, di mettere in evidenza la musicalità e la poesia, e forse per questo mi sento vicino ai musicisti e ai poeti.

E quello per le incisioni rupestri dei Camuni? La creatività, l’arte, la capacità di realizzare immagini di valore universale connotano i punti più alti della storia umana fin dal paleolitico?

Senza dubbio. È l’espressione artistica la prima e fondamentale forma di comunicazione e relazione tra gli uomini. La forza dell’arte dipende dalla sua capacità di interpretare e sintetizzare il proprio tempo e, a volte, persino, di anticiparne le tensioni e le dinamiche. Per me “fare arte” è un atto di libertà che si deve compiere in modo semplice e rigoroso senza alcuna visione strumentale. Per me l’ideale è ambientare le opere all’aperto, tra la gente, le case, le vie di tutti i giorni. La scultura supera così il limite di un’arte chiusa nei musei e nelle collezioni private e diventa dominio di tutti, diventa il modo di inventare un nuovo spazio e mutare il senso di una piazza, di un ambiente.

 Simona Maggiorelli
© Tutti i diritti riservati. LEFT Avvenimenti, 09 Giugno 2012

il volume Vicolo dei Lavandai. Dialogo con Arnaldo Pomodoro di Flaminio Gualdoni

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