Mi succede, a volte, di ritrovare carte dimenticate, scritte anni addietro e di meravigliarmi non solo della loro ‘sostanza’, ma anche di quanta attualità si possa ancora ritrovare fra parole di così tanto tempo prima.
Qualche sera fa, guardavo Arnaldo Pomodoro in mezzo alla folla che lo stringeva a se’ durante l’inaugurazione della sua mostra “Una scrittura sconcertante” e per un attimo l’ho immaginato solo nel silenzio di questa grande sala, con intorno tutti quei suoi primi lavori – ‘ritornati’ – e ho immaginato che potesse vivere più meno quella stessa sensazione.
Credo che la riapertura degli spazi espositivi della Fondazione Arnaldo Pomodoro sia stata l’ennesima prova del coraggio di un intellettuale che non si ‘rassegna’ a rimanere chiuso nel suo Studio, ma che ha ancora bisogno di aprirsi al mondo circostante, per coinvolgerlo, viverlo e per scambiare con esso energie e opinioni in un continuo e onesto confronto dialettico.
La Fondazione e lo Studio si avvicinano sempre di più: quasi si fondono. E per suggellare questa fusione si è ricominciato daccapo, con una scelta espositiva fortemente simbolica: le opere della seconda metà degli anni ’50, ovvero l’inizio.
Un corpus, questo, che probabilmente la generazione di chi scrive non avrebbe mai avuto la possibilità di conoscere, e sicuramente non in maniera così organica, se non si fosse creata questa occasione più unica che rara.
Il 9 Aprile sono arrivato a Milano con la pioggia, ma all’ingresso di via Vigevano 9 (la ricorrenza numerica non sembra un caso!) in molti erano in fila per cercare di entrare nel grande open-space già al colmo della sua capienza. Si percepiva un atmosfera carica di curiosità, ma anche di grande aspettativa.
Avevo già avuto la possibilità di vedere in anteprima lo spazio e – molto velocemente – le opere ancora in fase di installazione tuttavia, una volta dentro, ho cercato per qualche minuto di estraniarmi dalla folla satura di commenti e complimenti per cercare di entrare nello spazio silenzioso di quel ‘nuovo’ Arnaldo Pomodoro: ho dovuto, per un momento, cercare di dimenticare tutto quello che mi ha fatto amare questo artista, per essere libero di riscoprirlo dall’inizio senza condizionamenti e pregiudizi, in forme e dimensioni del tutto inaspettate e lontane.
Mi sono ritrovato a rileggere una scrittura delicata e minuziosa, scoprendo un linguaggio che nonostante il tempo l’avesse tenuto silente, non sembra averne subito la corruzione, conservando la sua notevole forza semantica e portando con sé ancora tutte quelle importanti motivazioni ‘naturalistiche’ che furono di ispirazione al lavoro di quegli anni: paesaggi cesellati e raccontati come dei grandi ‘gioielli’ abbeveratisi alla fonte della disciplinata riduzione di Klee.
Caratteri che si vanno formando e che cominciano a cercare una sintassi costruttiva in cui, a ben vedere, possiamo già scorgere in alcuni passaggi (come ad esempio nel particolare della Tavola dell’agrimensore), tracce di quella calligrafia propria dell’artista che conosciamo oggi.
Nel primo volume de I Quaderni della Fondazione, Flaminio Gualdoni ricostruisce con attenzione il clima culturale di quegli anni ’50 in cui si intrecciano le ipotesi di ‘nuovo naturalismo’ di Francesco Arcangeli alla lezione ‘spaziale’ di Lucio Fontana e a tutti quegli stimoli provenienti da quella dimensione internazionale a cui la cultura italiana si va affacciando: una contestualizzazione appassionante che ci fa rivivere un momento in cui gli scambi intellettuali erano fittissimi e in cui queste prove del giovane Arnaldo Pomodoro hanno trovato un punto di partenza verso un viaggio davvero personale e lontano.
Ricominciamo, quindi, augurandoci che possa essere anche l’inizio di un nuovo momento culturale e che questo spazio possa coinvolgere e a tessere reti fra artisti, critici e pubblico diventando uno di quei luoghi possibili da cui possa muoversi quel rinascimento della cultura che tutti auspichiamo.
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