Ho incontrato stamattina il mio vecchio amico Tettarella.
Non è il caso di spiegarvelo il significato del suo soprannome. Troppo volgare. Magari lo specificherò, questo sì, lo specificherò in uno dei miei prossimi romanzi; visto che ha abbastanza stoffa, credo, per divenire un personaggio.
Ci capita spesso di fare un tratto di strada assieme a me e a lui, e camminiamo a lungo quando succede, separandoci una volta arrivati sulla stazione, visto che prendiamo treni diversi.
Quando ci siamo incontrati stamattina, siamo passati fuori a una tabaccheria che ha levato le tende per colpa del pizzo. Ho osservato quel negozio chiuso e me lo sono figurato come una bocca tappata. Ho fatto cenno a Tettarella di guardare ed «È una città fottuta!» m’ha fatto lui, ed io ho usato un sorriso stretto per assentire.
Poi Tettarella ha aggiunto che non l’aveva mai conosciuto ma l’aveva incrociato spesso, il titolare di quella stessa tabaccheria, e gli aveva sempre fatto un certo effetto il suo sguardo.
«E cioè?» ho chiesto io. E lui: «Beh, come spiegare? Uno sguardo imbarazzato e complice, ecco, come quello di uno che per strada s’è ritrovato a pestare insieme a te la stessa cacca!»
«Che cazzo di esempio! » gli ho replicato.
«Imbarazzo e complicità quello tra te e l’altro che s’è ritrovato come te coi piedi nella stessa merda!» ha continuato imperterrito lui, cercando di chiarire «Imbarazzo e complicità che poi sfociano puntualmente in una catena di proteste contro lo schifo di amministrazione comunale, contro i netturbini, contro l’inciviltà, la strafottenza e l’aumento dei prezzi che non c’entra un cazzo ma che ci sta sempre bene; il tutto sostenuto saltellando tenendo tutt’e due “pestacacche” comicamente alzato l’arto immerdato!»
Ho sorriso di nuovo.
«Il tempo è migliore oggi, non credi?» ha attaccato lui.
«Sì, migliore» ho risposto io.
«Migliore di ieri!»
«Sì, migliore di ieri!»
«Fa più freddo, però!»
«È vero, fa più freddo!»
«Una perturbazione!»
«… E una corrente d’aria calda proveniente dai Balcani!»
«Più l’anticiclone delle Azzorre!»
«Proprio quello!»
«… E delle correnti ascensionali!»
«… Più qualche leggero piovasco» ho concluso io. Ed entrambi siamo scoppiati dal ridere.
Si chiama Gennaro Pacilio.
Il nomignolo di Tettarella… ma sì, al diavolo la volgarità, voglio proprio dirvelo, gliel’affibbiò una ragazza stufa delle sue manie!
Abbiamo tutti i nostri vizi. Lui quello di titillare e voler ciucciare di continuo capezzoli mentre brancica. Lavora in un’associazione onlus napoletana che si occupa del recupero dei giovani dei quartieri ad alto tasso di criminalità. Va in giro sputando fuoco o facendo acrobazie perché il metodo usato dalla sua associazione, chiamata Il Tappeto di Iqbal, si basa sull’insegnamento dell’arte circense.
Iqbal era un ragazzino pachistano che si oppose alla mafia dei tappeti. Lo uccisero dopo qualche anno dalla denuncia che aveva sporto per maltrattamenti, sparandogli a bruciapelo mentre correva in bicicletta. Non so perché, ma mi rende più sopportabile la sua tragica morte il pensarlo schizzante sulla bici come un aracnide saltellante. Il raffronto col mondo degli insetti mi viene per il fatto che suo padre l’aveva venduto come schiavo a un fabbricante di tappeti che lo teneva incatenato al telaio perché vi lavorasse dodici ore al giorno, e me lo immagino per questo come un ragnetto tessitore tenuto imprigionato in un barattolo. Tettarella, ci puoi giurare, te ne fa la biografia completa non appena gli chiedi di cosa si occupa. L’associazione Il tappeto di Iqbal ha l’appoggio di diverse scuole e diversi professionisti, me compreso, ed è per questo che, qualche volta, io e Gennaro ci siamo ritrovati a lavorare fianco a fianco, lui in bilico sui trampoli a giocherellare coi cerchi colorati e i birilli, io a fare cagnara con un ukulele scordato e una trombetta da claccarola, entrambi con la parrucca e il naso rosso da clown.
Lo vedi col trucco sbavato da pagliaccio e gli scarponi buffi, il mio amico, e mai diresti che dietro quel costume c’è un grande professionista dell’educazione. Col suo lavoro ha messo i bastoni fra le ruote a parecchia feccia. L’hanno minacciato più volte ma non s’arrende. La volta in cui dei camorristi gli hanno teso un agguato per pestarlo, ha capito subito di non avere scampo, s’è cavato il suo naso rosso da clown dalla tasca e se l’è messo prima di andargli incontro. È andato verso quegli stronzi col volto del pagliaccio, per sfotterli. L’hanno lasciato mezzo morto sul piancito con un braccio spezzato.
Parliamo del tempo apposta, io e lui, quando ci si incontra, scherzando sui luoghi comuni. Troviamo che sia un modo per sputare su questa città di merda “per rimanere in equilibrio”, ci diciamo, “aiutati dall’ironia, impacciati e grotteschi che siamo, eppure coraggiosi, sulla grande fune della vita”. “In equilibrio sopra la follia”, ci diciamo citando Vasco, “fino a quando qualcuno non troverà il coraggio per affrontare i sensi di colpa e cancellarli da questo viaggio…”
Uno dopo l’altro, io e Tettarella completiamo a staffetta l’intero tragitto della strofa.
«Eh, sì…» faccio puntualmente io.
«Già…» fa lui, abbassando a conclusione gli occhi.
Questa di solito la scena.
Sempre stamattina abbiamo incrociato un tizio parecchio imbronciato che, vedendoci, ci ha stranamente grugnito.
Ci siamo scambiati un’occhiata complice, allora, io e Tettarella, e c’è venuto da ridere.
Si trattava di un noto attaccabrighe. Siamo passati oltre, intuendo ch’era purtroppo diretto al nostro stesso Caffè.
Nel bar, semibuio nonostante l’ora, ho notato subito che un monitor nuovo di zecca con le immagini del Lotto aveva spodestato la vecchia madonnina di Lourdes.
Nella luce fumosa mi sono messo a osservare gli avventori brulicanti come in processione, con in mano le loro preghiere di carta, in fila a teste levate come girasoli grigi.
Sullo schermo una sfilza di numeri.
«Guardalo, Tettarè» gli ho fatto.
Tettarella aveva la tazza col caffè in mano e ha sorseggiato prima di annuire.
Gliel’ho indicato. Il tizio irascibile s’era giocato tutto quanto aveva nelle tasche mentre noi facevamo colazione e, una volta uscito dallo stanzino dei videopoker, se l’era rivoltate platealmente che sembravano adesso lingue di cani.
Quando qualcuno gli ha intimato di risistemarsele, l’ha mandato al diavolo ed è uscito dal bar bofonchiando qualcosa di paradossale, tipo una preghiera blasfema, una bestemmia pia, non saprei come definirla, grattandosi nel frattempo le parti basse, per scaramanzia o speranza, Dio solo sa.
Quando ci siamo separati per andare ognuno al proprio treno, Tettarella m’ha detto, ritornando a lui, all’uomo che ci ha grugnito: «Di sicuro uno sfregarsi le palle il suo, in mancanza di una lampada di Aladino!»
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