La possibilità di un passaggio di testimone tra generazioni, di un’eredità morale e culturale da ricevere, elaborare e attuare nel futuro è, nel Novecento italiano, un tema fortiniano. «Proteggete le nostre verità» è la “lapide” conclusiva di Composita Solvantur.
Ma la verità, per il rigoroso autore di Dieci inverni, non può essere offuscata dai bagliori di un fine astratto ed esterno, da un volontarismo ideologico che non faccia i conti davvero con le esigenze pratiche ed umane del presente. Si tratta poi, nello stesso tempo, di una verità non rimandabile ad un futuro che sembra continuamente sfuggire oltre.
Questa lezione, dal punto di vista di chi resta, sembra ben chiara al giovane Lorenzo Mari (classe 1984). Il “debito” del titolo è un debito di figli, ma, come si lascia sfuggire lo stesso autore in una nota, può essere anche un debito di “orfani”. L’assenza dei padri è tuttavia un’assenza da cui si emanano parole, gesti, esempi morali; e d’altra parte, è davvero orfano soltanto chi ha avuto (o trovato) un padre. Con questi padri lontani non è infatti possibile avere un vero corpo a corpo, un cabotaggio continuato e costante dei loro limiti o virtù. Ma se i padri sono presenze lontane, punti sottratti al corso non lineare della Storia (linee e punti tornano come metafore geometriche in alcuni testi), altri interlocutori restano, resistono.
Si tratta dei fratelli: compagni di viaggio, ma anche bersagli a cui indirizzare i propri strali polemicamente aggressivi (si veda il beffardo finale di Vertebre). La storia italiana d’altra parte, come aveva intuito Saba, è prima di tutto una storia fratricida. I fratelli, quelli reali e quelli mancati (una delle due epigrafi in esergo reca i versi vibranti di Simone Cattaneo), sono per Mari i compagni delle «conversazioni vive», coloro che, semplicemente, ci sono accanto nel quotidiano.
In questo ordito compatto – un “pathos freddo” ha notato giustamente Matteo Marchesini – fatto di scivolamenti sintattici da un verso all’altro, a far vibrare la sordina, a tratti meccanica, sono assonanze, parole usate fuori dal loro contesto, finali in cui con crudeltà beffarda viene ricomposto un senso come si comporrebbe sul tavolo anatomico un cadavere mutilato.
L’invettiva, qui tenuta a bada dall’ironia, restituisce uno scenario squarciato di irrealtà, di frammenti scomposti associati tra loro per assonanza simbolica. Nelle cinque stanze del poemetto Intermittens, spartiacque della raccolta, l’orizzonte tracciato è quello di una «pietraia», un deserto d’attesa buzzattiano, senza eserciti e tartari minacciosi, in cui si cade «come nei cartoni animati: / alzando grida isteriche e nuvole gialle / di polvere».
È chiaro che, in un contesto simile, si avverte solo la parodia di una lotta. Sul tracciato di una possibile frontiera bellica (sociale, intellettuale, affettiva), qui esemplificata dalla Linea gotica, restano solo presenze intermittenti come le pasoliniane lucciole, metafora di una condizione umana di fragilità e di debolezza, anche nel resistere (si veda il finale).
L’espressionismo di Mari è tuttavia solo apparente se nasconde tra le maglie dei suoi versi tutta una serie precisa di dettagli topografici (Topografie necessarie è il titolo di una bella poesia). Un espressionismo, se di questo si tratta, sempre composto o, meglio, ri-composto, in cui i frammenti (come quelli carnali: «costole», «fegato», «piedi gonfi», «unghie dei morti» etc), si diceva, ritrovano unità nel ritmo serrato, di marcia, sostanziato dall’ordito più generale dei testi.
Il mondo degli animali, infine, in cui la favola (e dunque la morale) è impressa nelle carni e non in astratte umanizzazioni, è qui, ancora, metafora di una condizione di precariato esistenziale, d’un guado che contempla come sponda d’arrivo (questa volta sì, beffardamente e linearmente definitiva) la sola morte. In questo scenario, sembra dirci il poeta, ciò che importa davvero è «discernere gli eguali».
Per tornare, quindi, a quella affiliazione del titolo, e a quel debito di fratelli, il solo possibile per Lorenzo Mari, che prevede come unico dato irrazionale la fiducia in un possibile e giusto riconoscimento reciproco.
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