Ammettiamolo: gran parte dell’immagine internazionale di Napoli, della sua fama paradisiaca e ornamentale ci viene dalla grande e piccola pittura dell’Ottocento.
La Campania e il Sud erano un laboratorio e un terreno di caccia eccezionale per chi, armato di tavolozza (e non solo), colori e pennelli, catturava l’anima di una terra che univa natura e cultura, umanità e dolore, rovine e paesaggi.
Tutto si prestava al colpo d’occhio immediato che fotografava e poi completava con l’arte dei colori l’anima di un luogo.
Nella complessità e ricchezza di un secolo romantico e impressionista, spicca a Napoli la Scuola di Posillipo, definizione usata, inizialmente, con intenzione spregiativa dagli accademici per indicare artisti che usavano tecniche inusuali per la prima metà dell’Ottocento, stretta tra gli epigoni del Neoclassicismo e i furori del Romanticismo.
Sia come sia, il tempo ha dato ragione agli eretici, che sono diventati addirittura un paradigma dell’immagine di Napoli, imitati fino a oggi dalla pittura popolare più legata alla tradizione che attrae come una calamita soprattutto i forestieri.
I maestri della Scuola di Posillipo sono universalmente indicati in Anton Sminck Pitloo e Giacinto Gigante. Legato al primo, inizialmente come allievo e poi come genero, c’è Teodoro Duclère.
Vissuto nel pieno del secolo (è morto meno che sessantenne, nel 1869), Duclère è uno degli artefici magici del panorama campano e soprattutto sorrentino, perché in Costiera visse il lungo e a lungo dipinse e disegnò. E ora Sorrento lo celebra con una mostra (aperta fino al 30 aprile, avete tempo, ma non perdete tempo) allestita al Museo Correale che conserva moltissime delle sue opere, soprattutto i disegni e ora li espone, per la prima volta, nella quasi totalità. È un’occasione unica perché si tratta di oltre 350 pezzi: schizzi, disegni, bozzetti e grandi opere. L’ha curata direttamente il direttore del Correale, Filippo Merola. È pure stato realizzato un catalogo a cura di Luisa Martorelli, Mario Russo e Andrea Fienga. Si tratta di un’occasione, come spiegano il presidente del museo, Giuliano Buccino Grimaldi, e il consigliere Gaetano Mauro, per rendere noto un patrimonio culturale di assoluta rilevanza, per tutte le altre preziose collezioni d’arte esposte.
Di fronte alle opere di Duclère si resta sempre impressionati dalla delicatezza dei paesaggi che fanno rivivere scene naturali e quotidiane, ma, allo stesso tempo, reinventano prospettiva e scenografia. E sì, l’occhio del maestro è teatrale. Sembra sempre che un sipario sia stato alzato sulla bellezza, dove il mare, la terra con le sue asperità rupestri, le case, gli scorci selvaggi diventano dei personaggi di un grande allestimento, di uno spettacolo silenzioso. Ma non sono più gli scenografici, freddi e innaturali allestimenti tardo-settecenteschi. L’«appunto» è preso dal vero, con la «macchia» che diventa una sorta di macchina da presa, immediata e sentimentale.
I temi di Duclère sono quelli canonici della Scuola di Posillipo, ma stupisce la varietà delle sue declinazioni e la vastità degli orizzonti che comprendono la Sicilia e l’Abruzzo, la Calabria, Ischia e ovviamente la Penisola sorrentina e la Costiera Amalfitana. Sono davvero frammenti di un barthesiano discorso amoroso, dove l’oggetto del desiderio appagato è il Sud dell’Italia. I soggetti sono usuali, quindi, ma caratterizzati da spiccati effetti coloristici di immediata efficacia ottica. I tagli e le inquadrature hanno un tono illustrativo (sotto l’influsso di Gigante), ma a renderli originali sono le modalità di realizzazione, in particolare quella dei disegni che costituiscono, anche per la loro abbondanza, l’unicità della mostra. Sono realizzati spesso, su cartoni colorati con diverse tecniche, dalla matita lumeggiata a biacca all’acquerello che restituiscono l’essenza di panorami e architetture che ormai fanno parte del nostro paesaggio mentale più profondo.
di Pietro Treccagnoli
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