Sono cresciuto in un posto in cui essere veramente bambini vuol significare in qualche modo essere privilegiati. La scelta se bruciare la fanciullezza o restare legati ad essa per tutta la vita è condizione che subito si presenta.
Oggi è Terra dei Fuochi. Giusto per riempirla con qualcosa dopo averla svuotata e depredata per anni. Un’accezione ed una semplificazione che dovrebbero denotare qualcosa. Per molti è solo famiglia, odori nostalgici e ricordi di gioventù.
Un compagno ricercatore di New Delhi di recente mi ha detto:”Ok, now I can understand. You come from the Land of Fires”. Ha aperto il suo browser e mi ha mostrato un servizio di un minuto e mezzo, realizzato da Al Jazeera. In una sequenza velocissima: le vele di Scampia, una panoramica dall’alto delle periferie in cui alcuni scugnizzi sfrecciano in bici di fianco cumuli di spazzatura, poi la malattia di una famiglia di Varcaturo, in prossimità del disastro di Giugliano (discarica Resit, affari dell’avvocato di Camorra, Cipriano Chianese, e gli interramenti di rifiuti tossici). All’amico ho provato a raccontare il punto di vista di un bambino che diventa uomo in quello scenario, descritto dal servizio video in maniera grossolana, senza connessioni geografiche ed in un calderone di stereotipi tanto inutili quanto miseri. Una prospettiva altrettanto poco lucida è quella di chi deve scegliere con chi stare: per strada o tra i banchi di scuola. In un piccolo paese tanto vicino alla reggia vanvitelliana, per l’Unesco patrimonio e per la realtà pentimento costante, quanto vicinissimo al quartiere generale dell’impresa camorra.
Qui, se nel mezzo, bisogna scegliere se stare con gli infanti che hanno una definizione familiare chiara, all’interno della quale o del padre o della madre si devono conoscere il nome e soprattutto il ruolo sociale, che sostanzialmente è costituito dalla professione, oppure con quelli di cui non si può sapere nulla, perché tutti, dalla famiglia agli istruttori di qualsiasi forma di aggregazione, ti dicono che è meglio starne alla larga. Per propensione o banale fascinazione del male mi sono trovato a frequentare sempre la seconda categoria, cercando scuse per evadere, usando la strada come supplente di un’anarchia già disegnata: bullismo in bici; guerra di sputi; ingrossare il petto; nascondere i peccati, per poi rimarcarli. Fino alle prime risse, il disagio tra i banchi, le incomprensioni con quelli che avrebbero dovuto essere dei riferimenti culturali, sentire qualsiasi cosa lontanissima ed usare il binocolo anche per sognare: se con uno strumento musicale tra le mani sapere che qualsiasi palco è lontano mille miglia e se con un taccuino essere certi che un editore non saprà mai dell’esistenza di quelle riga.
Lontanissimo qualsiasi posto non raggiungibile col motorino. Tutto lontano. Stropicciare le cartine geografiche, studiare di nascosto per non tradire gli schemi comportamentali degli amici. Isolarsi ed isolare per poi crescere e capire che quei modelli di abbandono erano scientificamente stati scelti. Provare a denunciare, girare per le cave come pugno allo stomaco della coscienza di un intero popolo. Si, cave, buchi alle montagne, minerali tirati via al paesaggio per cementificare tutta l’Italia. Cementifici che ingrigivano case e polmoni, roghi di ogni genere immischiati all’incuria dell’emergenzialità dei rifiuti, camion a targhe internazionali e ad interesponsabilità europea che buttavano chissà cosa nella stessa terra. Una scelta. Da ragazzino provare a fare domande, sentire risposte come: ”Preferisco mio figlio handicappato, più che mio marito disoccupato”. Smarrirsi in terra mia e partire, prima per migrare e poi per curiosare. Calcare i valichi di confini; le rivoluzioni arabe; i guerriglieri del Pkk; le trincee e le esclusioni kosovare; l’usura istituzionale; le bombe irachene; adattarsi e reinventarsi; abbracciare il nuovo e dover dimenticare le abitudini. Tutti scenari in cui sporcarsi le scarpe, camminare, senza contatti di fixer, traduttori o agganci forzati da forme di pagamento: solo amici e faccia da uno di loro, grazie alla scuola di uno stesso abbandono, vissuto però in terra mia.
Un giorno tornare e vedere le pagine di giornali piene di nomi di città e paesini ignorati dai più per anni. A me ricordavano lotte, discariche e voci strozzate in gola. Oggi invece adottati dalle soubrette intellettuali di turno. La reazione obbligatoria deve essere solo di positività: purché se ne parli… Ed invece no. Se ne parla col solito sdegno di un rigore non fischiato ad una partita di calcio, alla rinfusa, a testa bassa. Senza analizzare l’avidità di generazioni che hanno creduto di poter svendere le proprie terre per possedere un’automobile in più, che hanno retto il gioco a signori che chiamavano commendatori, a cui chiedere favori, a cui vendere il culo. Passeggiare per le stesse strade di un tempo ed ascoltare agli angoli: “Hai sentito cosa ha dichiarato Carmine Schiavone?”. L’ultima delle persone da prendere come riferimento. Uno che ha ancora movenze da furbo, che ruota le mani come a scuotere il proprio carisma, in contesti in cui l’intervistatore sarebbe pronto anche ad un pompino pur di continuare a sbavare per le dichiarazioni shock dell’ex camorrista. Prima dove cazzo viveva tutta questa gente?
Comprensibile la paura, gli innumerevoli micro interessi da accarezzare turando il naso e prendendo a testate la coscienza, però la morale e lo stupore, dipendenti dalle parole del protagonista vissuto, con gli occhiali scuri ed i siti da indicare, sono davvero insopportabili. Lui, personaggio che rappresenta le fandonie raccontate dalla criminalità organizzata, che ha sempre dichiarato di lavorare contro lo Stato, perché interveniva lì dove c’è stato abbandono, curando un altro tipo di interesse. Bugie, perché il lavoro è stato fatto a braccetto con quel potere che si diceva di combattere. Criminali che hanno messo camicie e depositi bancari nelle stesse stanze degli “antagonisti” e che alla manovalanza, come in ogni sistema di potere, ha fatto credere di essere diverso e più potente. Lungimiranza raffinatissima, quella che deve arrivare a puntare poi al business delle bonifiche per perseguire un arricchimento ignobile e destinato a strozzare se stesso. Ora la camorra si fionda sulle bonifiche? Potrebbero aprirsi disquisizioni infinite. Sarebbe tuttavia ancora meglio disquisire su quanto si debbano odiare nonni e padri, zii e fratelli, specchi ed annessi. Zona no food; modelli del ciclo dei rifiuti. Tutte cose delicatissime, per cui fare molta attenzione, per non agevolare la manna delle speculazioni su bonifiche e centrali a biogas, ma soprattutto per non dimenticare che terra mia non c’è più, che Terra dei Fuochi è un agghiacciante riduzionismo, che c’è solo una terra che non è più tale. Meglio riprendersi brandelli di coscienza, smetterla d’indignarsi a comando e pensare nel profondo. Forse non c’è più nulla da fare, ma auguri a tutti quanti.
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A questa accorata accusa a cui nessuno può dichiararsi escluso non posso rispondere che con una vergogna incapace ci cogliere a fondo l’intensità della tragedia, lo confesso con umiltà: come percepire interamente il senso di quel ‘lontano’, capace di contenere una immensità di tradimenti? Quella lontananza degli esclusi che Giroffi ha vissuto qui, ma anche in altre parti del mondo, diversamente ‘terre dei fuochi’, ovunque l’individuo è espropriato da se stesso, da ciò che potrebbe essere.
Le sue accorate intense parole sono intrise di un dolore partecipe che non può essere di chi non l’ha vissuto, e questo ci vieta almeno ipocrite parole consolatorie.