Del giornalista napoletano Ernesto Pagano avevo visto su Sky Arte il documentario “Napolislam” sorta di reportage sui convertiti partenopei alla religione del Profeta Maometto: un documento attualissimo e fresco. Ora Pagano dà alle stampe per i tipi della Centauria – in realtà un’etichetta della Fabbri editore – un libro dallo stesso titolo – pagg. 226, euro 18 – che ha il pregio di spiegare – oltre alla riproposta delle interviste ai “ritornati all’Islam” già presenti nel video – il suo percorso umano e professionale che lo ha portato a pensare l’intera operazione “Napolislam”; che ci appare alla luce di questo percorso un’elaborazione culturale di primissimo ordine.
Pagano nel 1999 entra alla Facoltà di studi islamici “L’Orientale” di Napoli – un’enclave che da oltre un secolo studia quell’Oriente che anche il regime fascista aveva brama di conoscere. Poi l’11 settembre riaccende l’interesse verso quel mondo, ma solo con il riappropriarsi della propria lingua e delle proprie tradizioni degli arabi europei di seconda generazione iniziano – “venivano a galla i decenni di segregazione sistematica degli arabi nelle periferie” – gli scontri a Saint Denis.
Nel 2009 Pagano è a Napoli e scopre i primi convertiti locali Ciro e Francesco, che nulla hanno a che vedere con le banlieues.
Dal 2004 al 2008 Pagano è invece al Cairo, dove insegna ad alcuni egiziani l’italiano – c’è l’araba fenice della Bossi-Fini che tenta molti sprovveduti – ed assiste ai contrasti della società locale stretta tra spinte democratiche, versioni wahabite dell’Islam ed emersione politica del movimento dei Fratelli musulmani: questa parte del testo – “E’ l’Islam la soluzione?” – è interessantissima perché spiega un po’ la storia dell’Egitto moderno e la mancanza nella terra dei faraoni del concetto di “laicità”.
Poi il ritorno a Napoli e la decisione di guardare l’Islam da questo parallelo, per capire il perché dell’adesione di tanti gentili ad una religione-stato che entra nelle fibre dei suoi aderenti come l’acqua nelle molecole del corpo umano. Il merito di questo testo è il suo approccio laico che si mette in ascolto delle storie cercando di trovare organicità di sistema in un aggrovigliarsi di matasse narrative individuali. Ma forse ha ragione l’ultimo Niccolo Fabi de “La somma delle piccole cose” : “parlare di cose private è popolare: non esclude, ma include”.
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