Scrosciano nella sala, fino a fondersi con l’intonazione di “Bella ciao”.
Il filmato è ancora in corso, le immagini finali scivolano insieme al sottofondo musicale del partigiano e ai primi titoli di coda, ma gli applausi del pubblico irrompono già, improvvisi e forti. Sono così entusiastici e calorosi, travolgono tutto il mio silenzioso riserbo, mi colpiscono come frecce scagliate senza preavviso.
Guido mi ha appena menzionata in conclusione del suo discorso e per questa manciata di interminabili secondi, tutti gli occhi sono puntati su di me.
Sento ardere il volto e il petto pare sbalzare in fuori, ma siedo in prima fila, non posso nemmeno eclissarmi tra il pubblico. Resto per un po’ sulle mie; avverto il torpore dei muscoli tesi, vorrei applaudire anche io, ma le braccia rimangono conserte.
Qualcuno mi dà dei colpetti affettuosi sulle spalle. Fugaci carezze da persone non conosciute, desiderose di dare conforto alla vedova di un uomo valoroso.
Alzo lo sguardo verso il grande schermo, dove adesso è proiettato il nome di mio marito: Vincenzo Stuni. Subito dopo, lapidari, i caratteri numerici: 1962-2014, l’anno di nascita e quello di morte.
Una fine improvvisa, che ha inghiottito anche una parte di me nella voragine buia di un silenzio senza vita. Non ero affatto preparata. E chi può mai esserlo? L’uomo evolve, progredisce, ma davanti alla morte, china il capo in segno di resa.
“E se io muoio da partigiano, o bella ciao! Bella ciao! Bella ciao, ciao, ciao,
E se io muoio da partigiano, tu mi devi seppellir”.
Era la sua canzone preferita. Diceva che era ritmica e orecchiabile e che con parole semplici esprimeva grandi valori: lo spirito di sacrificio, l’amore per la libertà, il coraggio, il sentimento.
Si sentiva un po’ partigiano anche lui, quando lasciava tutto e tutti, per salpare alla volta di terre lontane e sconosciute. Coltivava l’ideale di un mondo migliore, privo di ingiustizie sociali, e per ottenerlo doveva combattere la sua parte, nessuno avrebbe potuto impedirglielo.
L’immagine della schermata si dissolve; nome e cronologia lasciano posto a una foto del mio Enzo. La ricordo: risale a cinque o sei anni fa.
Era stata scattata all’improvviso, non c’è alcuna posa ricercata. Mio marito indossa il camice bianco da lavoro e sorride in modo bonario, come faceva sempre; sullo sfondo, tra sterpaglie e mucchi di terricci rocciosi, in uno scenario di desolazione e povertà, si intravede qualche capanna di un villaggio della Tanzania. Eppure, i bambini che si accalcano intorno a lui nella foto, sogghignano con aria divertita. A dispetto della magrezza scabrosa dei loro corpicini, hanno bocche grandi e carnose, che spalancano per prodigare larghi sorrisi, dove la bianchezza delle dentature stride con il nero delle iridi e dei volti.
Guardavo queste immagini e mi veniva da pensare che per essere felici, a questi popoli, bastasse davvero poco.
«Non farti ingannare da quanto vedi nelle foto», mi spiegava Enzo. «Soffrono. Sorridono perché sono bambini.»
Raccontava di schiere di ragazzini stremati dalla fame. Non appena arrivavano volontari e aiuti umanitari, si precipitavano come sciami di cavallette per arrancare un tozzo di pane. Circondati da mosche, seminudi, provati dalla miseria. Guardavano i grandi furgoni carichi di pacchi. Nessuno aveva insegnato loro da dove e perché provenissero quelle camionette; ma sin da piccolissimi, avevano imparato a rincorrerle per sfamarsi e per accaparrare quanto bastasse a non morire di stenti. E davanti a tutte quelle persone dalla pelle chiara, vestite in modo strano, con quei grandi aggeggi che fanno “click”, gli veniva da sorridere.
«È così» mi diceva ancora Enzo. «A vincere è la curiosità: i bambini si lasciano prendere dal nuovo in un attimo». Quindi, mi raccontava di alcuni di quei ragazzini che sorridevano con lui nelle foto, e di quanti ne vedeva poi morire tra le sue braccia.
Gli chiedevo se questi sventurati provassero rabbia per la ricchezza e per gli sprechi che abbondano nei paesi sviluppati. Lui non mi rispondeva, si limitava a tirar su le spalle e a storcere le labbra abbozzando una smorfia.
Della fame nel mondo si sa da sempre: ricordo quando, da bambina, a scuola, leggevamo i toccanti scritti di Gianni Rodari. Ma se era mio marito a parlarmi di miseria e povertà, provavo un forte senso di sgomento; con le sue parole, riusciva a farmi percepire appieno il malessere di quelle terre così lontane da noi.
“E seppellire lassù in montagna, o bella, ciao! Bella, ciao! Bella ciao, ciao, ciao,
E seppellire lassù in montagna, sotto l’ombra di un bel fior”.
Uno scatto fotografico non può esprimere l’intensa fluorescenza che brilla negli occhi di chi prova un così forte amore per gli altri. Eppure, in questa foto, che ancora giganteggia nella proiezione, per un attimo lo sguardo di Enzo appare irradiato da luce vera.
Quasi mi sembra di sentire la sua voce, di avvertirne in qualche modo la presenza.
Saranno questi continui applausi a suggestionarmi, saranno le note di “Bella ciao”, o il lungo discorso pronunciato con gran commozione da suo nipote.
Guido ha parlato per almeno mezz’ora, ma in sala non ha volato una mosca. Tutti zitti ad ascoltare la storia di quel suo zio valoroso e altruista, morto in Africa due anni fa. Una storia che già si conosceva, qui in città. Se ne è parlato anche al tg regionale, sul web, su quotidiani e settimanali.
Soltanto oggi, però, il dottor Vincenzo Stuni ha ottenuto il suo giusto tributo; grazie alla caparbietà di suo nipote, ostinato più che mai nel portare avanti questo dovuto riconoscimento. Alla fine, l’ha avuta vinta. Con voce ferma, si è rivolto a una platea variegata: emeriti medici, illustri scienziati, politici, giornalisti e professionisti venuti da ogni dove. Ha fatto le cose in grande, Guido, per mettere su questo evento.
«Non si è detto abbastanza di zio Enzo e del suo grande impegno per la solidarietà. Non avrò pace, finché non gli sarà resa la giusta gloria» ha sentenziato, giusto un mesetto fa, quando, timorosa di rivivere dolori e rimpianti, tentavo di dissuaderlo da quest’idea.
“Medico volontario muore in Africa per devastante malattia virale”: così recitavano i trafiletti delle testate giornalistiche, alla notizia della morte di Enzo. Troppo poco: lui ci metteva l’anima.
Ogni anno, trascorreva lunghi periodi in sconosciuti villaggi in Africa, in India, in Sud America; andava ovunque servisse aiuto.
Inutili i miei tentativi di farlo restare a casa: doveva rendersi utile al prossimo, doveva combattere in prima linea.
“E se io muoio da partigiano, o bella ciao! Bella ciao! Bella ciao, ciao, ciao,
E se io muoio da partigiano, tu mi devi seppellir”.
Quella sua luce negli occhi l’aveva vinta su tutto. Partiva con lo stretto necessario, pronto ad affrontare disagi imprevedibili, a fare sue le sofferenze dilanianti di persone che morivano per stenti o per contagiose patologie virali. Finché uno di quei virus non l’ha contratto lui.
Se ne è andato in pochi giorni, lasciandomi sgomenta.
Se ne è andato dopo una vita spesa a curare moribondi sopraffatti dalla fame e dalle malattie. Soccorreva feriti dalle mine antiuomo, portava medicinali ai bisognosi, aveva una buona parola e un sorriso per tutti, specie per i bambini.
Noi non ne abbiamo mai avuti. Io ne ho fatto un dramma, forse non me ne sono mai fatta una ragione. Per lui, invece, i bimbi che curava erano un po’ figli suoi, come pure suo nipote Guido, che sin da piccolo, gli diceva di voler diventare medico anche lui. E ci è riuscito: oggi festeggia la laurea in medicina generale con questo encomio dedicato all’amato zio, inserito in appendice alla sua discussione della tesi.
Guido sorride compiaciuto sul palco, in tanti si avvicinano a lui per complimentarsi.
È emozionato, tutti questi applausi rimbombano così forti, la loro eco crea un’atmosfera surreale, dove il tempo non scorre più, resta impigliato tra gli scrosci dei battiti di mani.
E le genti che passeranno
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E le genti che passeranno
Ti diranno «Che bel fior!»
Non mi aspettavo così tante persone. Continuano ad applaudire con gran vigore, qualcuno inizia ad alzarsi; a uno a uno tutti gli altri. Io, invece, resto seduta ad asciugarmi le lacrime. Proprio io, sempre così sulle mie. Io, la moglie severa, che stempera le emozioni con atteggiamenti freddi e distanti.
È che per la prima volta, da quando Enzo non c’è più, avverto un senso di quiete. Il tributo di Guido mi ha liberata da tutto il vuoto di questi due difficili anni.
Finalmente la mia rabbia si è placata. Sì, finalmente non provo più quel gran senso di colpa per non essere riuscita a trattenerlo a casa.
“O bella ciao! Bella ciao! Bella ciao, ciao, ciao …” me la canticchiava prima di ogni sua partenza, quando teneva testa ai miei occhi severi indossando uno sguardo canzonatorio. Quante volte avrei voluto dirgli di lasciar perdere, di pensare agli ammalati della nostra città. Poi, scorgevo la luce radiosa del suo volto e me ne restavo zitta.
Ho sempre pensato di aver sbagliato a non impormi, ma oggi ho capito che il disegno della sua esistenza era questo: Enzo ha vissuto così come voleva, sacrificando la sua di vita, per salvarne tante altre.
Adesso tutto sembra avere un senso.
“E’ questo il fiore del partigiano, o bella ciao! Bella ciao! Bella ciao, ciao, ciao,
E’ questo il fiore del partigiano, morto per la libertà!”
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