arte, cultura e public speaking: ne parliamo con Stefano Volpe

Quanto è importante anche nel settore culturale parlare bene alle conferenze, alle presentazioni e in tutte le occasioni pubbliche? Scopriamolo con Stefano Volpe.


Gino: Allora siamo qui oggi con Stefano Volpe per parlare di Public speaking, nel settore arte e cultura ovviamente. Quanto è importante questo argomento nel lavoro che facciamo? perché è un lavoro all’interno del quale ci si trova spesso a parlare davanti a un pubblico: conferenze stampa, presentazioni di mostre, visite guidate all’interno delle mostre… quindi c’è sempre – soprattutto da parte dei curatori e dei critici – questo rapporto continuo con il pubblico, e spesso si sottovaluta l’importanza di parlare in una certa maniera, piuttosto che come viene. Quindi scopriamo prima chi è Stefano Volpe, che cosa fa, chi è, da dove viene, e che cosa c’entra con questa parolina: public speaking.

Stefano: Allora, io nasco regista e attore. Ho sempre avuto – diciamo proprio partendo dall’arte – un grande interesse per l’elemento voce, fin da quando ero adolescente. Mi ricordo che proprio i miei regali di Natale, quando avevo 11-12 anni, erano le famose musicassette – non le cassette – dove incidevo – poi non so con quale piacere/dispiacere per chi riceveva questo regalo – delle poesie, non mie ma di grandi poeti, che mi divertivo – più che a recitare – propria a dire. In maniera tale da trasmettere la mia emozione verso la persona alla quale facevo questo regalo, attraverso sì l’opera di un altro, ma attraverso l’emozione che viene trasmessa dalla voce. E proprio da quel ragazzo lì, fino ad arrivare a quasi l’età di 56 anni, ho sempre fatto, con vari passaggi dall’arte – quindi regista, attore – a quella di formatore, di coaching, attraverso un’ altra tipologia di formazione, creando un brand, o proprio una nicchia sul vocal coaching, che non è quello di Maria De Filippi ovviamente, ma come un esperto vocale – che è bruttissimo dirlo così – ma un coach vocale, cioè la voce come attivatore. Come quel ragazzo che faceva quel regalo in maniera da dare un’emozione attraverso l’ascolto, nonostante le varie impurità della mia voce, i difetti, eccetera. Perché già la voce – di per sé stessa, a prescindere dal contenuto, a prescindere dagli elementi del linguaggio – è apportatrice di vibrazioni, di emozioni. Proprio il concetto di vibrazione legato al suono di qualcosa che cambia la realtà, l’emozione, e anticipa, prepara, il contenuto che, a sua volta, è strutturato attraverso il linguaggio. Da qui anche un mio brand, che è “my schema” sugli elementi del linguaggio. È proprio il mio schema, quindi non uno schema archetipico, ma che ci si arriva in una seconda fase, quando uno scopre consapevolmente la propria voce. Non è un livello estetico solo di dizione fonetica, scansione – come ce n’è dappertutto – ma è proprio: quale suono sono io, che sentono gli altri. E già di per sé trasmetto qualcosa, che non riesco a dissimulare o a simulare. Quello arriva, ed è quello il segreto degli oratori di successo, delle persone di successo che riescono ad arrivare immediatamente ad emozionare, nel momento stesso in cui parlano. È una coscienza del proprio suono, che non vuol dire essere “tromboni”, ma di una voce che ci rappresenti. Ovvero, ribaltare il famoso giudizio che abbiamo quando ci risentiamo attraverso un media, attraverso una registrazione: due persone su tre non si piacciono, anzi, negano l’evidenza, dicono di non avere quella voce. La voce rappresenta la persona – qualsiasi età, uomo/donna -, è quella persona. Quindi l’ascoltatore percepisce – a livello di cervello rettile – immediatamente chi ho davanti. È anche la maniera migliore per scoprire i tuffatori, i manipolatori e, allo stesso tempo, per dare valore ai cosiddetti profili che sembrano bassi. Ecco, io lavoro su questo: sull’ immediata direzionalità e rappresentatività della voce del sé, attraverso – come direbbe Carmelo Bene – il significante, per dar maggior risalto al significato. E con questo allineamento completo arriviamo, in maniera completa, alle altre persone: quindi con autorevolezza, con piacere, mostrando noi stessi senza avere paura, mostrando coraggio. Non beatificarsi di sé, bearsi di sé, ma semplicemente: signori, io sono questo. Perché la voce è anche il diagramma di tutta una vita trascorsa, nel bene e nel male: riporta tutto, a livello di trasmissione di suoni nel cervello limbico, proprio nelle prime sensazioni. Quindi avere coscienza di questo porta ad una piena comunicazione.


G: Ma infatti il problema principale, che spesso si riscontra nel settore culturale, è quello che a volte assistiamo a conferenze – lunghe e brevi – di una noia mortale. Magari con contenuti interessantissimi – magari stiamo parlando di grandi artisti, di storie bellissime – però che non sanno coinvolgerti. Perché succede questo? Perché una conferenza, una conferenza stampa, una presentazione di un’artista, diventa noiosa?

S: Perché è vista come un dover fare bene. Mentre invece il dover fare bene, che pure può essere comprensibile. Uno ha la responsabilità di una conferenza e la vuole fare in maniera convenzionale, che risulti gradita da tutti, che sia politically correct, che sia ineccepibile, il compitino bello fatto a casa. Per carità, la stragrande maggioranza di chi parla in televisione – degli oratori – segue questa linea di “messa in sicurezza”. Ma la “messa in sicurezza” non porta a nulla, non trasmette nulla. Perché certo, ci vogliono i contenuti, ma tu – tu professore universitario che insegni, tu maestra di scuola elementare -, dov’è la tua vita? Cioè, quando tu hai appreso queste informazioni, che stai esternando nella tal conferenza stampa, nella presentazione di un libro, dov’è il tuo essere rispetto a queste informazioni? Cioè, che effetto hanno avuto in te? trasmettimi quell’emozione o – meglio ancora – quella vibrazione che mi fa vibrare il mio 70% d’acqua, e mi fa emozionare. Se no è come se uno decidesse: vado al ristorante dove si mangia bene stasera, o mi vado a fare una bella flebo in ospedale, che tanto sono nutrito lo stesso?


G: Questo poi forse rientra in tutto quel calderone della sottovalutazione, che è un problema abbastanza cogente nel nostro settore. Quindi secondo te perché uno si preoccupa più – giustamente certo – di approfondire, di aver tante cose da dire, piuttosto del come dirle e del come farle arrivare?

S: Un retaggio italiano: contano i contenuti e, il fatto del come dirlo, è visto come una funzione – nella maggior parte dei casi – esclusivamente estetica, che però sembra che vada ad eccepire sui contenuti. Da un punto di vista etico è giusto, io sono il primo a dire che ognuno è responsabile dei propri contenuti. Tante volte associo il parlare con il gusto, con la masticazione, che non è solo un esercizio di scansione: quando noi mangiamo un cibo, e ci piace da morire, in quel momento lì non ci viene da parlare nemmeno a nostro figlio o a nostra moglie. Ma non per egoismo, perché siamo immersi in questo piacere. Ecco, in Italia manca il piacere del parlare nel senso stretto del termine: unisco all’informazione il mio piacere – anche solo di comunicarvi questa informazione che passa attraverso la mia vita – non attraverso un altro essere, o un media. Il “come” è proprio quella masticazione, quella ricchezza vocale, quella voce, quel suono che rappresenta quella vita, da cui quelle informazioni.


G: Ma oltre a questo “problema” c’è anche una differenza, diciamo alla base, di tutto questo? Cioè, per esempio, arriva di più chi parla a braccio, o arriva di più chi si prepara uno script, o un testo, che comunque poi, bene o male, recita a memoria o legge?

S: Allora, chi parla a braccio è quello che ha più coraggio. Ricordiamo tutti i silenzi di Craxi nel parlamento – indipendentemente dalla coscienza politica – o i discorsi a braccio di Almirante – sempre stando nella politica, sempre lasciando da parte destra/sinistra – o di Fini. L’andare a braccio e un’arte. Tutti, volendo, possiamo imparare la lezioncina da soli, ci ripetiamo i punti. Siccome siamo mediamente intelligenti, ci arriviamo. Però, cosa trasmetto io nella nell’esposizione programmata per punti? Sicuramente una grande precisione, perché è tutto studiato a tavolino, so che funziona, sto dentro i tempi, recito bene. Perché recito: nel senso, dico bene delle cose che mi sono preparato prima, quindi sono sicuro che, da un punto di vista informativo, sono corretto e funziono. Peccato che manca completamente la parte emozionale. Allora per dire, chi va a braccio va a caso, si butta, si affida al fato, o la va o la spacca, improvvisa. Improvvisa, ma nel senso deteriore del termine, cioè diventa approssimativo. E invece chi va a braccio é perché ha già talmente le idee chiare, come se avesse una sorta di mappa mentale che segue, ma l’ arricchisce, la rende più sapida con il proprio pensiero in diretta. Nel senso che lui, mentre sta seguendo sicuramente una sua linea – questo è indiscusso – la riesce, in diretta, ad arricchire, a rendere piacevole, a  renderla vera. Cioè, c’è anche il piacere dell’imperfezione. Quindi si può dire che, quando uno parla a braccio, è talmente dentro, è talmente padrone di quello che dice, che non ha bisogno di prepararsi prima, perché è esattamente la sua vita: racconta la sua vita informando.


G: Quindi per raggiungere questo – torniamo al discorso della consapevolezza o della coscienza – il contenuto devi fare in modo che diventi parte di te, che sia dentro di te, in modo da poterlo comunicare in maniera emozionante.

S: Devi fare in modo ma, nel senso che, se diventa uno sforzo, e ancora una ricerca, è una ricerca che ha un sapore tecnico, si vede che sta cercando di lavorarci. Invece il parlare a braccio con arte, sono proprio quelli che sono esattamente, nello stesso momento in cui collegano il cervello alla parola, il contenuto, e lo fanno passare quasi attraverso la loro anima senza alcun timore ma, anzi, con il piacere di condividerlo con una qualsivoglia platea. Senza avere nessun tipo di timidezza nel mostrarsi per come si è informando. Da un certo punto di vista mi butto, ma mi butto in sicurezza, perché so che è il mare in cui voglio nuotare. Andare a braccio, sintetizzando, per me vuol dire libertà, avere il coraggio di essere liberi, però allo stesso tempo essere responsabili di quello che uno sta dicendo.


G: Ma secondo te si nasce con questa capacità o, attraverso lo studio, attraverso la pratica, si può anche raggiungere, più o meno facilmente?

S: Allora, una certa predisposizione certamente c’è, che appunto attiene al famoso public speaking. È un po’ come l’arte del cucinare, del recitare, è un’arte quella del parlare. È un’arte vera, non è una messa in scena. Può essere certamente perfezionata, altrimenti io non avrei ragione di esistere, proprio perché aiuto le persone ad aiutare sé stesse a tirare fuori il meglio di loro, che è il meglio per quello che danno loro, ed è una caratteristica unica nell’esposizione. Sta solo scovarlo, attraverso il lavoro, attraverso la conoscenza di sé, all’ascolto. Perché adesso sono tutti con la parola “ascolto” però, se tu ti ricordi, visto che anche tu hai seguito il percorso con me, il primo esercizio, quello dell’ascolto minimo – che credo ancora tutt’ora tu faccia – è quello che ci permette di ascoltare – non in senso etico – i rumori più piccoli, da qualsiasi parte provengano, per dire: ok, questo arriva da qui, questa arriva da là. Averne coscienza, perché più è fine il nostro ascolto, più e raffinata la nostra ricchezza vocale, più siamo sensibili ad ascoltare, e più siamo ricchi e potenti di colori, di sfumature, quando parliamo. È una questione veramente fisica, non tanto tecnica. Però è una questione di volerlo. Ma se tu con quella voce rappresenti e incorpori quelle cose che dici, ma ti rendi conto che tieni avvinte quelle persone che ti stanno ad ascoltare, da un’ora o due che sono venuti ad ascoltarti? Parlare a braccio è un’arte che si raffina.


G: Quanto fare un percorso del genere, approfondire questi argomenti, può essere utile – oltre che nel lavoro – anche nella vita personale, quotidiana?

S: Ti rispondo sinteticamente. A pensare meglio, a rapportarsi meglio proprio col mondo, e non solo con gli altri, ma con le cose, con l’ambiente, assaporare in diretta il momento presente nel momento stesso in cui fluisce. Ma più si è presenti nel presente, e più questo ci aiuta a costruire, gradino dopo gradino, il futuro. Assolutamente.


G: E quindi se uno lo vuole, come dicevi prima, che percorso deve fare? Quali sono i primi step, primi passi che uno può fare per cominciare ad acquisire questa consapevolezza di sé, della propria voce?

S: Allora, innanzitutto ricercare quella che io chiamo la propria “matrice vocale”, che va oltre la struttura del linguaggio, della dizione e fonetica. Quindi scoprire il suono, attraverso che cosa? L’utilizzo del diaframma. Perché si fa un gran parlare del diaframma, senza sapere poi che cos’è, dov’è, come lo utilizzo, come lo attivo. Anche la respirazione, espirare e inspirare, certo. Oppure la respirazione yoga che va altrettanto bene, per carità. È un insieme di ricerca raffinata nel primo percorso, proprio di capacità di ascolto. Perché già questo, sembra una cosa incredibile a dirsi, anche perché non richiede una grande fatica se non quella di mettersi in gioco ed ascoltare. L’ascolto, fatto in maniera metodica, sempre per i famosi 5-10 minuti, che uno si pone ad ascoltare i suoni nel medesimo posto, in uno stesso momento, prenderne nota: un po’ come faccio fare nei miei esercizi. Farlo proprio come una sorta di abitudine, tanto non costa nulla, non ci vuole nessuna iscrizione. Nulla costa, se non la nostra voglia di sacrificare qualcosina del nostro tempo. Ed è legato – anche l’ascolto – al respiro, trovare dopo il respiro – attraverso degli esercizi di visualizzazione proprio come vocal coaching- il primo passo grosso, la propria matrice vocale. Parlare di sé senza affaticarsi, perché la voce umana nasce proprio per essere emessa 24 ore al giorno, esattamente come gli animali, senza alcun tipo di debolezza, di caduta di tono, di stanchezza, se uno la sa ben utilizzare. Quindi attraverso un percorso, come quelli che propongo io, con vari step in cui uno dovrebbe arrivare ad una fase di autogestione, per cercare di emozionare, con la propria vita, le persone attraverso i propri contenuti. Quello è il massimo.


G: facciamo un esempio noto a tutti nel mondo dell’arte: Sgarbi emoziona quando parla? Quando parla d’arte, per cui lasciamo stare i tuoi teatrini televisivi che niente hanno a che vedere… parlo dello Sgarbi che scriveva sull’Espresso, che teneva quelle strisce in cui parlava di un quadro. Saranno passati 20 anni. Sgarbi emoziona? perché ha tutto questo carisma quando parla di arte?

S: Sgarbi è un personaggio che io a volte ascolto, e mi pento di me stesso perché mi rendo conto che sto perdendo tempo. Proprio quando sto per fare zapping e vedo che c’è di nuovo Sgarbi, prima del riflesso di Pavlov che scatta sul tastino del telecomando mi accorgo: ah, non è il solito Sgarbi! Ma io non ho neanche ascoltato quello che sta dicendo, perché io sono abituato allo Sgarbi tecnicamente rissoso – perché paga molto essere rissosi – ed è un personaggio che lui tiene. Però qualche volta, anche in televisione, non lo tiene sempre sotto controllo, si dimentica.


G: Perché lì recita.

S: E certo, segue un copione. Ma gli chiedono quello, perché se arrivasse lo Sgarbi vero non fa più audience, non lo chiamerebbero più, gli sponsor non ci sarebbero più. Mentre invece quando lui fa quelle tirate, quelle arrabbiature terrificanti, aumenta incredibilmente l’audience. Perché noi siamo affamati come dei voyeur: devo cercare di andare a vedere la rissa, come quando due litigano per strada, che si fa il capannello attorno per vedere se si menano, se sprizza il sangue. C’è questa voglia di crudezza. E lui, che ha costruito questo personaggio, gli deve dare cibo, per alimentare questo personaggio. Però il vero Sgarbi l’ho visto una volta per Bologna a parlare per strada con una ragazza. Facendo finta, che a me non va di riconoscere questi personaggi e dargli modo di esaltare il loro narcisismo riconoscendole andandoli a salutare, però parlava con questa ragazza, e finalmente senza cercare di sedurla – perché noi conosciamo anche le abilità, o presunte tali di Sgarbi verso l’altro sesso – con un filo di voce. Mi ero avvicinato, mi ricordo che guardavo una vetrina, eravamo in via Galliera a Bologna in pieno centro. Ho detto: voglio sentire Sgarbi quando parla non al microfono. Quindi uno si aspetta quello: era uno Sgarbi che parlava pensando bene a quello che diceva, alla parola, guardando negli occhi, non aveva più questa maschera tirata nel volto, questa zazzara. Mi ricordo anche che aveva fatto appena un incidente, quindi aveva un braccio ingessato, era un po’ malridotto, ma nonostante tutto esprimeva umanità. In quel momento lì, a bassa voce, non parlava d’arte, parlava con questa ragazzina che avrà avuto 13 anni, quindi non era Belen Rodriguez, non faceva parte del palinsesto televisivo. E lui, per la prima volta, si mostrava per quello che non avevo mai sentito. Non sentivo bene i loro discorsi, sentivo questa voce, e mi parlava proprio di lui, dello Sgarbi che studiava l’arte a fondo quando era ragazzo a Ferrara. Mi trasmetteva anche quasi il senso di Ferrara, cosa che è irriconoscibile quando gli dai un microfono in mano. Però è anche quello che diverte la gente.


G: Questa cosa del microfono è una cosa interessante. Quanto il microfono cambia la persona che deve parlare?

S: Eh dipende dalla persona. Insegno l’utilizzo sia del microfono come questo, sia quello ad archetto, quello sulla fronte, quello a gelato, che è quello più sensibile di tutti. Oppure per gli speaker, quello in alto supersensibile. Allora, il microfono cambia, o modifica, quello che mostrerebbe già queste debolezze anche senza microfono. Quindi il microfono amplifica le insicurezze. Mentre invece il microfono amplifica le sicurezze quando uno apre i canali – come piace dire a me -, si libera delle resistenze, del respiro corto, di questa presunta paura di sbagliare. Ma sbaglia un chirurgo che gli muore un paziente, ma se uno sbaglia a parlare cosa potrà mai succedere? È questo il bello. Perché io posso pensare all’ingegnere – appunto, crolla il ponte, che è cronaca di questi giorni -, al chirurgo. Ma uno che parla, aver paura di parlare, timore di che?


G: Quindi il microfono, come dici tu, aumenta le tue paure se sei pauroso, amplifica la tua sicurezza se sei una persona sicura.

S: Ti dà proprio modo di amplificare tutti i tuoi lati positivi, allo stesso tempo tutti i tuoi lati negativi, attinenti all’ insicurezza, all’imbarazzo di parlare in pubblico. A parte gli errori di lessico per dizione fonetica, per cui se uno mi parla in bolognese, tutti i difetti in bolognese vengono amplificati, se non esasperati: ma questa è proprio una caratteristica del microfono. Ma amplificano per esempio tutte le pause, gli allungamenti delle vocali, i silenzi, che sono di pensieri ma pieni di suoni. Vanno a trasmettere un mare di suoni che al pubblico che ascolta, o che sente in radio, che indebolisce il personaggio. Io a volte dico ai miei allievi: parla al microfono come se tu fossi nella cucina di casa tua, parlassi alla tua famiglia, fregatene completamente. È quello che supera addirittura la radio. Il segreto dei talk show notturni americani che hanno le persone che creano dei grandi scordi di audience, alle 2, 3, 4 di notte – quando c’è la notte che favorisce la comunicazione emotiva – e lo speaker sembra che parli solo a te, ma lui non sa chi sta parlando. Più uno sa parlare bene con sé stesso, e più uno sa parlare meglio agli altri, al pubblico. Il segreto del Public Speaking: ma io come parlo a me stesso? Non perché uno che parla da solo è un matto, questo è il luogo comune. Il parlare a sé stessi vuol dire conoscere sé stessi, avere la voglia di conoscere gli altri. Quindi portare la propria forza, energia, a parlare e a condividere il proprio pensiero, le proprie emozioni con gli altri. Ecco questo, e il microfono in questo può solo aiutare.


G: All’inizio ti senti matto, quando sei lì da solo. Per esempio io quando faccio i video, che sono da solo davanti alla telecamera, non c’è nessuno, parlo da solo, all’inizio ti senti stupido. Ma dopo, soprattutto se entri nell’ottica di star lì e pensare che stai parlando con qualcuno, sicuramente questa cosa la superi più velocemente. Però dopo, piano piano, acquisisci una tua scioltezza, una tua naturalezza nello stare davanti…

S: Tu pensa ai grandi speaker della radio, non vedono nessuno perché stanno in luoghi ridottissimi, e le persone sono affezionate a quella voce. Al di là dei contenuti, se anche loro leggessero una cosa stampata – per stare sul sicuro – cambi speaker e il contenuto rimane, quella trasmissione perde audience.


G: Io per esempio ero affezionatissimo a Marino Sinibaldi, che su Radio3 per tanti anni ha condotto “Farenheit”. Quando è andato via Marino Sinibaldi, che da un giorno ad un altro mi sono trovato con un’altra voce, mi è crollato il mondo.

S: Non sembrava più quello…


G: Non sembrava più quella trasmissione lì. Pure, per carità, altrettanto bravo, però…

S: Arriviamo a quello che sempre fa parte dei miei corsi: quando uno raggiunge la consapevolezza della voce, carisma, e porta al mondo la propria cifra stilistica. È una firma, è la firma come di un grande quadro. Per cui quella stessa trasmissione, una volta che non c’era lui, non era più la stessa. Come la Domenica Sportiva senza Sandro Ciotti. Cioè non è più lui, non è più quella domenica. O il “Novantesimo minuto” senza Paolo Valenti. Cioè, sembra un’altra cosa, è un’altra cosa. Ma tutti andiamo al ricordo di quella voce guida. Quindi noi tutti possiamo essere voce guida, che è energia, è ricordo di un’energia, di un’emozione, sempre. Cioè come una sorta di orecchio assoluto, che io dico a volte il cuore assoluto. Nel senso, quando abbiamo quella emozione, anche dopo anni ci ricrea in questo momento quell’emozione, il ricordarlo. Questo è il potere della voce.


G: Passiamo dallo speaker, da solo la notte nella sua radio, al curatore davanti a una sala di 200 persone che deve raccontare la sua mostra. Cosa cambia tra le due situazioni, emotivamente?

S: Ci sono due scelte. Una tecnica teatrale, della famosa quarta parete, ma questa tiene più alla recitazione classica. Io a volte mi diverto di più a volte tanto più è numerosa la platea. Diciamo fino a 500 persone riesco anche a non volere il microfono. Certo, se fosse un teatro di 2000 posti il microfono ci vuole, perché se no uno deve alzare talmente il volume che andrebbe un po’ a distorcere i toni. Però, diciamo, avere davanti – proprio per rispondere alla tua domanda – una platea, o avere un muro, come avere uno speaker, o il buio, o una luce on air… alla fine, se uno è veramente se stesso, non sta a guardare le facce degli altri, l’espressione degli altri, se quello si muove, o se digita sul cellulare, o se quello va al bagno, o se quella in ultima fila… in ultima fila si mettono sempre quelli che, se non gli piace si alzano, non disturbano. Quelli che non disturbano, disturbano sempre, però pensano di non disturbare. Vanno tutti via gobbi, e c’è tutto un brulicare in fondo.


G: Cioè non si vogliono far vedere ma sono quelli che li vedi di più.

S: Subito. Il 90% della platea, a meno che uno proprio non faccia cose assurde chiaramente, però rimane lì. Perché poi il pubblico ama l’estrema debolezza, che tu vai in confusione, non ti ricordi più niente. C’è la voglia di vedere il gladiatore ferito come se la cava, un po’ quel senso che ci è rimasto storico dell’ arena dei gladiatori, per vedere la persona in difficoltà che lotta. In effetti è un’arena, solo che lì i gladiatori lottavano e morivano, in questo caso non è che uno lotta: lotta con con sé stesso per cercare di infrangere, di aprire quella porta. Non ha alcun senso avere timore di quella platea. Alla fine quella platea – anche fosse di 50, dai 50 alle 500 persone – la devi trasformare: come se tu fossi davanti al caminetto, avere quel coraggio lì, con un massimo 3 persone. Anche come sguardi visivi, come mi insegnò il mio maestro Celi, il grande Adolfo Celi.  E quindi cosa si viene a verificare? Come il grande presidente Obama, se uno va a vedere su YouTube, quando faceva le presidenziali sembrava che parlasse a degli amici, ma era gente che non aveva mai visto. Avere quel coraggio della confidenza, della voce vera, che non ha alcun tipo di imbarazzo verso una platea. È come se con quella voce dicessi: io vi ringrazio di essere venuti qui, cerco di fare del mio meglio, vi trasmetto al meglio quello che so, raccontandovi anche la mia vita, nel caso di possa interessare. quando uno è preso da questo pensiero, come se fosse una sorta di timone, allora lì si diverte, esattamente come sto facendo io in questo momento.


G: In qualche modo bisogna instaurare un rapporto confidenziale con la platea.

S: È un rapporto invisibile, confidenziale, empatico, chimico, alchemico, di sguardi, di calore della voce. Perché la voce ha una sua temperatura vocale, perché poi scende: tanto più noi ci liberiamo di blocchi, tanto più andiamo verso il famoso diaframma. E allora a quel punto lì di nulla più abbiamo timore, andiamo proprio avanti ma non con aggressività, non c’entra nulla adesso lo Sgarbi di prima, o i personaggi della televisione che devono seguire tutti un copione. Come diceva un noto critico televisivo, al massimo la televisione è verosimile, non è mai come la realtà, mai.  Invece, come dicevi tu, avendo davanti una platea in carne e ossa, che ti guarda: chi è questo qui, mi devo fidare? Non è che uno è sotto esame… uno sostanzialmente decide, in platea: ma ho fatto bene a venire qui? O potevo stare con mia moglie a prendere un gelato, o stavo con i miei figli che era meglio, o stavo con l’amante che era ancora meglio. E invece senti quest’ uomo che ti parla, e piano piano, non sai perché, non sai per come, non guardi l’orologio. Non pensi più a quello che devi fare dopo, né a quello che hai fatto prima, e ti abbandoni al flusso. Quindi, la capacità di colui che ha davanti una platea, è quella di creare il cosiddetto flusso di voce, suono, voce/suono, emozioni, informazioni, e tutto questo attraverso il proprio essere. io vi dico, vi metto in mostra le mie debolezze, i miei punti di forza: questo sono. Quando uno ha questo coraggio arriva immediatamente.


G: Invece per esempio Philippe Daverio: che differenza c’è con Sgarbi? Chi è più efficace dei due? O se hanno un’efficacia differente…

S: Filippo Philippe Daverio a me piace seguirlo, perché ha questa suo grande gusto. Basta vedere anche come si veste, la cura che ha della propria immagine, che non è fine a sé stesso, perché lui si veste così anche quando va in una conferenza stampa, e anche se va in una trasmissione televisiva: quindi lui è. Stessa pettinatura, stesso modo di interloquire, di avere un proprio ritmo, di avere una propria scansione. E lui proprio mi trasmette sempre, inequivocabilmente, il piacere. Cioè, diventa arte il suo modo di parlare dell’arte: quello che manca a Sgarbi. Perché Sgarbi fa quasi una versione… come se lui avesse scoperto il mondo: io ho scoperto questo, sono il primo. Quando aveva la famosa competizione con Federico Zeri, o con Achille Bonito Oliva, e c’era questa forma di competizione, come se fossero Pelè e Maradona. Invece mi piace Philippe Daverio perché è una figura quasi d’altri tempi. Perché io mi metto lì, l’ascolto e imparo senza fatica, perché lui è quello che dice. E scommetto che se gli togliessero la telecamera lui non si fermerebbe, lui andrebbe avanti. Ecco, Philippe Daverio è un grandissimo, perché racconta l’arte con arte, perché il suo essere non può che essere così per poter dire al meglio, dire e non recitare o fare una parte: lui stesso è arte.


G: Quindi se volessimo trovare un modello nel mondo dell’arte da seguire, se uno vuole cominciare ad avere un riferimento per imparare, lui potrebbe essere…

S: Lui potrebbe rappresentare un epigono della correttezza formale, dell’essere, dell’essere arguto nell’arte, dire la propria, raccontare le cose come sono.  Questo mix, che Philippe Daverio sa fare con grande maestria e con grande autorevolezza. Ecco, quello può essere davvero un punto di riferimento, soprattutto per i critici più giovani che vogliono imparare. Perché lui se ne infischia del mezzo televisivo, dà priorità all’arte. Ecco, questo a me piace. Come ci sono tanti registi teatrali che danno priorità a loro stessi, al proprio narcisismo. A me il narcisismo dà fastidio.


G: Secondo te il narcisismo, un po’ di narcisismo, serve per parlare bene? Gestito nella giusta maniera, contenuto. È quella cosa che ti da un “quid” in più?

S: È quella debolezza, quando io ti dicevo: mostrando le proprie debolezze. Un po’ come… sai che in ogni torta se manca quel pizzico di qualcosa, è un pizzico di fronte a una montagna di roba, ma si sente che manca. Ecco, è quel pezzettino, che però non disturba, perché non è che si pretenda di essere perfetti. Un minimo, un pizzico di narcisismo, può essere anche quella debolezza per dire: sì, anche lui è umano. Però non disturba, è un elemento affabulatorio, di fascino, magari un pelino eccessivo ma che fa parte proprio di quella cifra stilistica, cioè: consentitemi questo, non disturbo più. Però fa piacere, è umano.


G: Giusto per ritornare un po’ di più al tuo lavoro, e non per portare acqua al tuo mulino, per parlare di quanto è importante la figura anche in questo settore del coach. Uno lo può fare anche senza, o invece ha bisogno di un accompagnatore? Puoi raggiungere dei risultati anche così, autonomamente, o essere accompagnati in questo percorso ti cambia qualcosa?

S: Diciamo può essere una via di mezzo. Ovviamente ci sono dei talenti naturali che sono estremamente bravi, non hanno alcun bisogno di un accompagnatore. Può essere utile l’accompagnatore in una fase temporanea iniziale in cui il coach, un po’ come voglio fare io adesso – senza portare l’acqua al mulino – ma allo stesso tempo senza creare dipendenza affettiva, come ti dissi. In maniera tale di dare quei 7, 8, 10, 12 strumenti, in maniera tale che dopo – provando e riprovando con l’aiuto del coach – sei tu che ti diverti ad utilizzare questo nuovo cruscotto, diciamo. In maniera tale che prima giochi, poi ti metti in gioco, poi ti diverti, dopo di che diventi il coach di te stesso. Quindi l’aiuto di un professionista nel campo della comunicazione può essere molto valido nella fase di start-up, si può dire, in una fase non tipo psicologo, che tu sai quando inizi ma non sai quando finisci, quando tu gli dici: basta, non vengo più perché non sono mica un bancomat, che fa un prelievo settimanale. Invece secondo me ogni coach dovrebbe battezzare un inizio e una fine, perché il coachee, cioè colui che viene seguito, vede un traguardo. È una responsabilità del coach: per dire, è come se all’università ci fosse una facoltà che durasse 25 anni. C’è un inizio e una fine, dopodiché la persona con la propria voglia… perché sennò non inizierebbe neanche. Quindi è chiaro che la voglia c’è, non è che prendo per strada io le persone e gli dico dai, vieni qua. Cioè, una persona già ha interesse, già ha voglia. Se tu gli dici: guarda, qui c’è il traguardo – dopo un certo numero di sessioni – e poi sarai capace di gestirti da solo. Questa persona è ancora più invogliata, sennò vedo un viale senza fine, un’autostrada senza indicazioni: si demoralizza. È chiaro che un coach, come uno psicologo, se dovessi pensare all’acqua al mio mulino, più lo tengo lì è più sono contento.


G: Per un maestro è facile creare dipendenza.

S: Appunto, e io non voglio voglio, anzi, voglio proprio che la persona sia indipendente, perché non è giusto. Anzi, il primo dovere del coach è rendere le persone indipendenti: aiutale per aiutarsi da sole. Basta, tutto il resto vuol dire strumentalizzare le persone, e questo sono contrario.


G: Quindi nel cruscotto di cui ognuno si deve dotare per poi andare avanti da solo, che cosa c’è? Quali sono gli strumenti, le spie che si devono accendere, che uno deve tenere sotto controllo? Cosa c’è fra i comandi?

S: Allora, conoscenza del proprio sé, perché la voce è un attivatore. Quando io dico attivatore significa che aiuta il nostro essere, indipendentemente dalla comunicazione, esprimersi al meglio di sé, cioè dando il meglio di noi per noi. Quindi, quando arriva il momento – adesso dico una banalità – che noi finalmente ci ascoltiamo per il registratore e diciamo: adesso sì che mi riconosco! Ecco, qualcosa, quando c’è questo riconoscimento, la persona lo dice che ha già ottenuto – perché questo è il verbo magico – dei risultati. Quindi è un attivatore di processi di coaching di crescita personale, di autostima della persona, di sicurezza. La voce crea, proprio come attivatore degli auto processi dentro di noi per cui questa insicurezza, come blocco, viene tolta. E via all’apertura dei canali. Con questa apertura dei canali si libera la respirazione, la conoscenza dei nostri punti di emanazione vocale: voce di testa, voce di petto, voce di diaframma. La conoscenza dei canali di comunicazione, che si legano più strettamente al coaching: quindi sono più in visivo, un uditivo, un cinestesico – senza adesso andare proprio nella spiegazione di questi tre canali di comunicazione perché richiederebbero una puntata parte – oppure della propria etica. Perché quando c’era il filosofo francese, che diceva di Henri Levy: l’etica e un’ottica. Che io l’ho coniugato, l’ho declinato anzi: l’etica è una voce. Perché si arriva a un punto tale che io, quando sento la voce di una qualsiasi persona che mi si presenta, anche se mi dice: è qui il campanello? È lei il vocal coach? Sì sono io! Ho già capito chi è. Ma non nel senso arrogante del termine, so già cosa aspettarmi: se è una persona dalla quale devo guardarmi e stare attento, o una persona alla quale invece mi devo dedicare. Quindi, come dicevi tu, questo cruscotto sostanzialmente attiene conoscenza del sé, respirazione, ascolto, fisiologia, canali di comunicazione, ritmo. La nostra vita è ritmo, sia in quello che pensiamo, anche il pensiero ha un ritmo, il camminare ha un ritmo, il parlare ha un ritmo, il mangiare ha un ritmo. Quando dici: ma quanto mangi veloce, come mangia piano. Siamo tutti colpiti dal ritmo. Il ritmo di una partita di calcio: ma che palle, ma sta partita di calcio è infinita. Perché il nostro cervello si abitua al ritmo, proprio nell’accezione più ampia del termine. E questo anche fa parte del famoso cruscotto.


G: Ma questa cosa del ritmo è interessante. Torniamo al discorso della noia: è la lentezza che crea noia, o che rapporto c’è fra la lentezza, la mancanza di ritmo? Sono la stessa cosa, sono due cose differenti?

S: Sì, sono due cose differenti. Perché noi siamo portati a dire: ma guarda come parla veloce quello, e guarda come parla lento. Abbiamo ragione ad avere questo tipo di impulso, di feedback, perché è come se noi dicessimo: questa persona non ha ritmo. Quindi sia l’andare troppo lento, e sia l’andare troppo veloce, è una nostra interpretazione della mancanza di ritmo. Questo, in altre parole, per dire che il ritmo è la prima cosa fondamentale nella comunicazione, una volta che uno è arrivato a capire sé stesso, eccetera eccetera, attraverso questi step di arrivo. Cioè, il ritmo è quella parte irrinunciabile, in cui uno deve darsi il tempo: è come una gara, un nuotatore che non ha ritmo. Tutto, se noi vediamo, in tutte le nostre attività c’è un ritmo. Se noi perdiamo questo ritmo, come nella gestione delle ore del giorno, e dici: adesso mi alzo, poi vado a lavorare quando mi va,  sono le 4, sai che ti dico? Vediamo domani. Ecco questa è la mancanza di ritmo: non fare assolutamente nulla, non ottenere nulla. E, nel caso della comunicazione, parlare veloce o lento vuol dire: mi perdo, non sono ascoltabile, e non me ne rendo conto. Quindi quando io ho il ritmo, tutt’al più si può dire: guarda che ritmo veloce. Ma questa è un’accezione positiva, cioè la persona riconosce che ha un ritmo veloce, ma capisco cosa dice, anzi, vorrei avere quel ritmo veloce. Quindi io posso, anche su di me, io ho un ritmo volutamente scandito, perché mi piace assaporare la parola, visto che la insegno. Ma, non di meno, posso assolutamente parlare in modo molto più veloce, senza correre il rischio di non farmi capire, perché so benissimo quello che voglio dire anche se adesso sto accelerando sempre di più quello che voglio dire, anche se sto andando contro la mia natura. Però non mi sto mangiando le parole, non sto allungando le vocali, però mi piace allo stesso tempo avere questo ritmo perché è quello che insegno agli speaker in radio, che devono avere questo ritmo qui perché all’orecchio altrui lo speaker radio che va con la stessa velocità, con lo stesso ritmo di cui parla quando è fuori radio sarebbe eccessiva lentezza. Per cui quando uno parla in radio, per dare la parvenza di naturalezza, deve parlare con un ritmo estremamente acceso e veloce, incombente, per dare l’idea a quelli che ascoltano di parlare in maniera naturale, che è questa quando uno parla per strada. Ma se uno parla così in una radio, e deve tenere svegli, chiaramente è una voce da Rai 3 alle 3 di notte mentre invece, sai, a mezzogiorno, di mattina, alle 2 del pomeriggio, difficile che tu vedi un presentatore, che deve presentare dei concerti rock, con questo ritmo. Quindi, come dire, ognuno di noi può avere consapevolezza del proprio ritmo. Cioè, in altre parole, la voce è un autentico spettacolo.


G: E quindi, per concludere, se uno parla d’arte, come deve parlare?

S: Guarda, siccome c’è un gran proliferare in televisione delle trasmissioni di gastronomia, anche troppo. Però, fra questa offerta abnorme di gastronomia, c’è qualche chef, adesso senza dire chi, per non fargli pubblicità che non hanno bisogno, che pochi – pochissimi – e guarda caso sono i più giovani, di quelli che magari non hanno notorietà, cioè non sono da Michelin tre stelle, 4 stelle, e così via. Ma riescono, unendo l’abilità del fare, del lavorare il cibo, unito alla parola, cioè: prima vi dico cosa faccio, poi lo faccio. Come se le mani fossero interpreti di quel modo di parlare, perché le mani stanno preparando quel cibo, di cui sta parlando lo chef giovane. Con quel piacere, come se anteponesse non il proprio narcisismo, ma la bontà di quel piatto, e non vedere l’ora di fare, il piacere di farle, di condividere quel piatto con chi l’ascolta. Quasi facendo assaporare – visto che si parla di cibo – alla persona quell’alimento, quel cibo, quella spezia, quel cibo particolare, senza averlo mangiato. Al contempo l’arte, anche se siamo in una conferenza stampa, quando una persona mi fa vedere un quadro senza averlo davanti a me. Io per esempio non ho mai sopportato, quando c’era la filodiffusione, quando c’era la musica classica, gli speaker che ti parlavano per 20 minuti del pezzo che ascoltavi: non ci capivi una mazza, perché dovevi avere una laurea in musicologia. Bellissimo, però rimanevi come un analfabeta. Ecco in quel caso lì, se per esempio lo speaker della filodiffusione avesse detto quattro parole, e mi avesse detto proprio quattro cose di quel pezzo, che arrivassero a tutti. Parlare d’arte, avere la capacità di trasmettere i lineamenti essenziali della cosa artistica di cui si sta parlando, fosse un quadro, una rappresentazione, un balletto, una qualsiasi cosa in cui è espressa l’arte, in maniera che tu fai il lavoro di filtro, tu critico, tu che sei un esperto d’arte. Fai  quel lavoro di filtro di te stesso, con la tua consapevolezza, me lo lavori, me lo elabori, e vieni fuori con un codice che io, che nulla so, che sono un analfabeta artistico, mi aiuti in questo. Se no mi metti solo di fronte la tua grande cultura con la mia non conoscenza: allora io ti posso parlare di voce all’infinito, così vediamo chi è più forte. Alla fine l’arte, parlare d’arte, è una seduzione. Parlare di cibo è una seduzione, parlare di letteratura, di teatro, è una seduzione. L’artista, l’esperto d’arte, deve farsi riconoscere immediatamente, anche nel silenzio, quando parla di quella cosa. Saper giostrare il silenzio, e alla fine dire quelle parole giuste, quelle parole che sappiano trasmettere, per esempio, l’emozione di un quadro. Parlare d’arte è avere quella capacità di parlare al pubblico, regalandogli quella modalità di andare oltre al guardare, al vedere il quadro. Anzi, il guardare in profondità quel quadro, quell’opera d’arte per emozionarsi, e scoprire sempre orizzonti nuovi.


G: quindi possiamo concludere che parlare d’arte è accompagnare le persone oltre l’opera d’arte.

S: Esattamente, proprio oltre l’opera d’arte.

No responses yet

Lascia un commento