Sarah Spagnuolo, fondatrice di Artemperature e digital curator ci racconta la sua visione del lavoro nel mondo dell’arte e il rapporto fra arte tradizionale, digitale e multimedia.
Gino: Allora, siamo qui oggi ad Acqui Terme con Sara Spagnuolo. Ci siamo incontrati perché lei ha dato un contributo alla mostra di Fontana, e nella rassegna che tutti gli anni, qui ad Acqui Terme, porta avanti… questa rassegna artistica che va avanti credo ormai da diversi anni. E Sara, insieme al suo team, ha dato un contributo per la parte multimediale di questa mostra. Allora ne approfittiamo un po’ per scoprire chi è Sara Spagnuolo, cosa fa, quali sono i suoi obiettivi, e come si muove all’interno del mondo dell’arte. La cosa che la caratterizza è l’ideazione, lei è la fondatrice di questa idea – possiamo dire – che è “Art temperature”. Di che cosa si tratta?
Sarah: “Art temperature” è un progetto di ricerca, basato su un tentativo di capire come l’arte può essere comunicata on-line, e come il mondo digitale può amplificare il messaggio portato dall’arte stessa. È iniziato tutto come un progetto più legato alla comunicazione on-line, quindi esiste appunto questo magazine digitale, dove parliamo di vari argomenti che riguardano il mondo dell’arte contemporanea. Principalmente il tema portante, appunto l’arte e la tecnologia, quindi come anche gli artisti usano i social media, e come i social media possono essere utilizzati per il mondo dell’arte. Quello che invece ci ha visto coinvolte qui ad Acqui Terme è un progetto che va al di là dell’ online, ma riguarda sempre il mondo digitale. Quindi come l’arte, anche offline, può beneficiare del digitale per raccontare qualcosa in più. Qui in particolare abbiamo pensato di dare un contributo legato al messaggio: infatti questa mostra, che è dedicata a Fontana – una mostra molto interessante perché ha più di 30 opere inedite, e quindi merita sicuramente di essere vista -, però tanti che conoscono Fontana si ricordano l’artista dei tagli sulle tele. Ma perché Fontana faceva questi tagli nelle tele? Ecco, noi con questa installazione multimediale siamo andati a rispondere, a cercare di dare un contributo su questo punto di vista: il perché Fontana ad certo punto decise di fare questi tagli nelle tele. Queste installazioni multimediali possono dare un contributo quando danno messaggio in più relativo al significato dell’artista – che l’artista mette nelle sue opere, o in un’opera d’arte in particolare – oppure hanno un senso quando coinvolgono le persone in una interazione con l’opera d’arte, oppure quando riescono ad amplificare l’opera d’arte stessa, dando ancora di più un senso di stupore nel vedere un’esperienza non solo estetica, ma anche emotiva. Quindi in questo caso noi abbiamo risposto al primo elemento, cioè cercare di spiegare un concetto che magari altrimenti era difficile da comprendere.
G: Ma questo è un lavoro sempre molto difficile, quello di associare la tecnologia al “modus”, diciamo, espositivo tradizionale. Perché si rischia sempre poi di travaricare, o che la tecnologia prenda il sopravvento rispetto ad una normale fruizione dell’opera d’arte. Secondo te qual è il giusto equilibrio, come si può fare a raggiungere il giusto equilibrio fra la necessità di godersi l’opera in maniera tradizionale, con la “contemplazione”, e la necessità, che oggi tutti sentiamo, di avere quel qualcosa in più che ci aiuti a entrare ancora di più in empatia con l’opera?
S: L’elemento multimediale bisogna veramente pensarlo in concerto con chi si occupa di curare la mostra, in modo da essere comunque allineati su quelli che sono i principi e il fil rouge della mostra. E poi secondo me va fatto quando veramente dà un valore aggiunto…
G: Cioè non deve essere fatto per forza perché oggi ci deve essere la stanza o l’installazione multimediale, che poi molto spesso quindi risulta apposta, non risulta integrata alla mostra, se è fatta in questo modo.
S: No, deve dire qualcosa in più. E quel qualcosa in più può essere sotto vari punti di vista, come dicevamo prima: può essere semplicemente un elemento divertente, che coinvolge le persone in maniera diversa, o magari pensato per un pubblico specifico. Io penso comunque anche a i visitatori più piccoli, i bambini: magari tante volte il multimediale per loro è un modo per trovare un elemento anche divertente all’interno della mostra. Oppure per lanciare un messaggio, oppure per creare un’amplificazione. Prima parlavamo di vari esempi… c’è stato recentemente questo uso del multimediale all’aeroporto di Bruxelles: facendo qualcosa di piccolo comunque hanno coinvolto, in questo caso, le persone che erano all’interno dell’aeroporto in un’esperienza diversa. Perché da dei quadri di Rubens hanno animato dei piccoli Cupido che si muovevano fuori dal quadro, svolazzando sui muri e scomparendo da una porta illuminata di luce divina. Ecco, è una cosa piccola, però che magari dà la possibilità di vedere un dipinto di Rubens in maniera innovativa, e magari a un visitatore disattento, come quello che può essere all’interno di un aeroporto, invece raccoglie l’attenzione e valorizza l’opera stessa, che potrebbe passare invece magari inosservata.
G: dipende molto, anche secondo me, dalla sensibilità poi di chi fa questo lavoro. Perché molto spesso alcuni produttori di mostre si rivolgono a dei tecnici puri, e allora il risultato dopo è abbastanza freddo, se vuoi, ho estremamente tecnologico. Invece ci vuole anche un buon lavoro di incastro, sia con la sensibilità del curatore, ma ci deve essere una sensibilità artistica anche da parte di chi poi va a sviluppare parte del team che va a sviluppare questo genere di lavoro. E quindi quando la mostra, per esagerazione, può diventare totalmente multimediale secondo te? fino a che punto ci si può spingere?
S: Ma, allora, a giugno 2018 è stato inaugurato il primo museo totalmente digitale a Tokyo, fatto da questo team, che si chiama teamLab. Quindi secondo me dipende dal concept. Nello stesso caso ad esempio il concept di teamLab non è creare una mostra come la intendiamo noi: è creare un’esperienza, un’immersione digitale in qualcosa che è arte. Non è l’arte che tutti immaginiamo, è un nuovo modo di vivere l’arte, un nuovo tipo di arte. È digital art e , secondo me, portata a questo livello, sì. Quindi è un’evoluzione dell’arte contemporanea, una strada che l’arte digitale sta prendendo, e chi produce queste cose è un artista. Quindi è come se fosse la mostra di quell’artista.
G: Ma in realtà è proprio quello che diventa. Nel caso di teamLab, è proprio un’opera di teamLab nella quale tu ti vai a immergere, nella quale tu vivi questa esperienza. Invece per quanto riguarda il nostro modo di fare mostre, diciamo dove la mostra comunque racconta una storia, magari reale, va a raccontare un contesto piuttosto che un artista, piuttosto che un’opera soltanto… può aver senso, secondo te il pubblico è pronto in Italia, in Europa, a recepire uno “spettacolo” del genere?
S: Secondo me sì, ed è quello che adesso Art temperature comunque… è nato un laboratorio in questo senso che si chiama Museum, e quello che noi stiamo facendo adesso è creare. Per esempio in dieci opere d’arte vogliamo creare un percorso all’interno della storia dell’arte, e lo vogliamo fare tutto digitale. È sostanzialmente usare il digitale per raccontare l’arte in modo totalmente diverso. Quindi è qualcosa di diverso, non è una mostra, è un’esperienza, è uno show, ma soprattutto è un prodotto di edutainment, che ha appunto questo obiettivo: raccontare un contenuto artistico attraverso un’esperienza multisensoriale, interattiva e multisensoriale. Quindi il digitale è solamente uno strumento.
G: Come potrebbe funzionare una mostra così? Quali potrebbero essere i momenti, i vari momenti che trovi all’interno di un percorso del genere?
S: Possono essere di diverso tipo. Possono coinvolgere il tatto, quindi per esempio noi avevamo creato un contenuto sulla Guernica di Picasso, dove c’era l’immagine di Pablo Picasso famosissima di lui con le mani sulla finestra, e tu visitatore potevi sovrapporre le tue mani alle sue, e lui reagiva a questa sovrapposizione iniziando a premere, a spingere, battere le mani contro il vetro, fin quando il vetro non veniva rotto in mille pezzi: e tu vivevi, visivamente e acusticamente, questa sensazione del vetro che si frantuma in tantissimi pezzi. Un altro esempio può essere invece l’evento che coinvolge non solo il tatto, ma l’olfatto: per esempio in pochi sanno che esiste una corrente artistica dell’arte contemporanea basata tutta sull’olfatto, esiste l’arte contemporanea olfattiva, artisti che creano installazioni basate sull’olfatto. E effettivamente oggigiorno è possibile inserire un elemento olfattivo all’interno di un’esperienza, e noi lo stiamo pensando nei confronti di Monet, riferito ad una delle sue opere più importanti, le Ninfee, immaginando questa sensazione di essere in un giardino lussurioso, pieno di fiori. Come puoi comunicare questa sensazione senza inserire l’elemento olfattivo? E quindi è un’esperienza multisensoriale. L’altro elemento importante è il coinvolgimento emozionale. Quindi, ritornando Ad esempio alla Guernica, noi abbiamo immaginato appunto di far vivere al visitatore il bombardamento, il momento del bombardamento del paese, la Guernica. È un’esperienza forte, che rimane impressa non perché hai visto il quadro, ma perché l’hai vissuto in qualche modo. E quindi sì, direi che si può pensare a esperienze totalmente digitali. Noi adesso stiamo sperimentando queste esperienze, ma non sono da intendere come le mostre a cui noi siamo abituati, sono una cosa diversa. Ma devono essere realizzate prevedendo il coinvolgimento di più sensi. Ultimamente c’è stata la famosa Klimt Experience, che è stata in Italia, adesso è in Europa, però è stata una mostra tutta digitale, basata solo su materiale audiovisivo e musica. Ecco, così forse è troppo poco.
G: Mi sembra che ci sia un momento di stanca di questo genere di mostre. I risultati mi sembra che stanno avendo, anche a livello di pubblico, non sono poi così eccelsi come ci si sarebbe aspettati. Probabilmente questa formula Experience ormai ha lasciato un po’ il suo tempo.
S: Sì, secondo me oggigiorno la tecnologia ci può supportare nel creare questo tipo di immersioni totali, però bisogna pensarle creando interazioni, creando ambienti che reagiscono al comportamento delle persone all’interno, e che possono veramente lasciare un impatto emotivo e sensoriale significativo, e che il solo averle realizzate rappresenti un’opera d’arte. Quindi, diciamo come gli artisti che iniziano rifacendo i capolavori dell’arte – e questo è quello che stiamo facendo noi – e poi ci sono artisti già maturi, come teamLab, che creano le loro esperienze da zero, senza riferimenti. È un nuovo modo di vivere: creare anche arte digitale.
G: Questo, dal punto di vista anche legale, non è sempre una cosa semplice. Perché, soprattutto quando si tenta di reinterpretare le opere di artisti soggetti a SIAE, a diritti particolari, si incappa in notevoli problemi. Quindi non è un lavoro che va liscio. E di contro, come dicevamo prima, per far sì che comunque siano delle cose realmente che valga la pena andare a vedere, bisogna investire molto, sia in tecnologia vera e propria – quindi in hardware, in attrezzatura molto costosa – sia in ore di sviluppo, di programmazione. Quanto può arrivare a costare un progetto del genere?
S: Difficile a dirsi, perché i costi dipendono dal numero di interazioni che tu vai a creare. C’è una parte di hardware, una parte di software, che sono significativi. Quindi chi comunque vuole realizzare queste installazioni multimediali all’interno di una mostra tradizionale deve tenere presente che ci vuole un budget dedicato. Non si può pensare, diciamo a mostra fatta e finita, di dire: adesso ci aggiungiamo il multimediale.
G: Abbiamo €5000 che avanzano, mettiamoci qualcosa di multimediale…
S: No perché si sottovalutano tutti gli aspetti, e come poi, essendoci di mezzo un software, c’è anche il discorso della manutenzione. Se una mostra dura due o tre mesi, o comunque c’è una questione di assistenza tecnica, se succede qualcosa. Infatti a me spesso capita di andare a vedere, anche presso musei, che c’è magari l’installazione multimediale che non va.
G: Che è la cosa più brutta del mondo…
S: È bruttissimo, però questo succede perché non si preventiva, fin dall’inizio, l’elemento manutenzione, che è importante, perché la minima cosa può comunque non far funzionare più un proiettore, la lampadina si brucia, eccetera. Comunque è importante pensare sempre che parliamo di installazioni che hanno bisogno di manutenzione e che devono funzionare non un giorno, ma mesi.
G: Quindi grandi costi, bisognerebbe comunque prevedere grandi ritorni, penso io. Il pubblico non sempre sembra pronto a questo genere di cose, ma forse perché tante volte si sbaglia il target. Probabilmente il target “pubblico delle mostre tradizionali” non è lo stesso, o non è completamente lo stesso target che si avvicina a questo genere di esperienze qui. Forse c’è un po’ una confusione sul posizionamento di una mostra magari totalmente multimediale, totalmente esperienziale, rispetto a una mostra tradizionale.
S: Per noi anzi è un modo per coinvolgere nell’arte un target giovane.
G: Un target giovane, e quindi nuovo, non l’appassionato con i paraocchi che vuol vedere solo Lopez… si sposta un po’ verso un pubblico diverso, l’attenzione del pubblico.
S: Sì, però io ipotizzo anche un mondo dove magari il super appassionato, il super collezionista, magari un giorno avrà la sua stanza creata ad hoc sui suoi desiderata, tutta digitale, che magari lo coinvolgerà in un’esperienza estetica, artistica, emozionale ad hoc. Quindi secondo me è ancora presto, però penso che questo tipo di strumenti e modi di creare arte digitale potranno avere degli sviluppi particolari.
G: Dall’idea che mi sono fatto negli ultimi anni, con le mostre che abbiamo fatto negli ultimi anni, mi sembra che i meno interessati a questo genere di cosa sia la fascia dei quarantenni. La fascia dei quarantenni forse è quella più distratta in questo momento. Sono molto interessati i giovani, non solo alla tecnologia: i giovani mi sembrano molto interessati all’andare a vedere mostre in generale. E anche le persone anziane, al di là di quello che si potrebbe pensare, con le cose interattive ci giocano parecchio. Quindi quello che manca, che forse in qualche modo va stimolato in un’altra maniera… ma probabilmente il quarantenne oggi ha altri problemi da gestire: la famiglia, la carriera, il lavoro. Quindi magari non ha la mente libera come un giovane, per approcciarsi a queste cose. Mentre invece all’anziano forse riviene fuori un po’ il bambino che è in lui, l’elemento ludico, proprio nel senso anche educativo del termine: gli “piglia bene” e lo utilizza in maniera anche abbastanza divertita, se vogliamo.
S: Sì, può essere sicuramente. Questa cosa che tu mi dici mi fa pensare in ogni caso a un altro elemento importante di queste installazioni multimediali: il fatto che siano semplici. Di certo un’installazione che prevede troppo tempo per essere capita, troppo tempo per farla funzionare, non funziona. Devono essere le cose comunque facili e immediate, che agiscono, interagiscono, rapidamente.
G: C’è il rischio di diventare un po’ criptici in queste cose, per eccesso a volte anche di masturbazione mentale, se vuoi, da parte di chi le fa. A volte vai a vedere delle mostre dove ti trovi davanti un’ installazione enorme che non capisci. Capita anche a noi del settore, non capisci assolutamente che cosa devi fare. Invece, come dici tu, l’immediatezza, e anche la freschezza se vuoi, di tutto questo ambiente è necessaria.
S: Sì, e poi un’altra cosa. Secondo me funzionano bene quelle installazioni che usano l’essere digitale anche per collegarlo al mondo dei social. Io mi ricordo un paio di mostre visitate, dove c’era l’ installazione multimediale che permetteva di realizzare un selfie in maniera diversa, o creare un contenuto per il visitatore da usare sui social media, e secondo me queste cose funzionano particolarmente bene.
G: Ma questo funziona anche se non è multimediale. Noi per esempio in una mostra stimolavamo i visitatori a mettere un post, ma non un post su Facebook, ma il post-it reale attaccato ad una bacheca, che poi era una parete della mostra, e la parete si è riempita di post. Quindi il bisogno delle persone di interagire e comunicare è a prescindere, che sia tecnologico o analogico, che sia digitale o analogico. La gente vuole interagire in qualche modo con la mostra, e lo fa. Per esempio nell’ultima mostra che abbiamo fatto, “The Wall”, c’era un corridoio dove c’erano dei pennarelli appesi, e tu potevi lasciare il tuo disegno, scritta, sul muro: dopo una settimana era pieno zeppo. Quindi ovvio che poi se c’è il selfie, l’installazione che ti fa fare il selfie, che tu lo puoi condividere su Facebook, funziona sempre. Mi ricordo poi quella mostra di Arthemisia di Escher, dove c’era la palla in cui tu ti riflettevi…quella è stata un veicolo di selfie impressionante, che poi diventa comunicazione.
S: Esatto, usare queste installazioni anche per creare delle connessioni con il mondo social, amplificare. Quindi la comunicazione della mostra è sempre interessante.
G: Quella deve essere sempre un po’ anche una furbizia da parte della produzione. Questo ci fa tornare a quello che dicevamo prima, che l’istallazione non deve essere una cosa giustapposta, ma deve essere una cosa pensata insieme al tutto, deve essere parte del tutto e non un elemento che viene dopo, messo lì.
S: Sì, mi fa venire in mente, quello che tu stavi dicendo adesso, anche un’altra cosa che ci siamo detti: che sicuramente oggigiorno non si può pensare di fare una mostra e di non comunicarla, di non spendere comunque del budget per la parte di comunicazione.
G: Che nonostante tutto continua ad essere uno dei grossi errori di chi fa mostre, soprattutto delle istituzioni in realtà. Perché chi fa mostre privatamente ormai questa cosa l’ha sdoganata, ci avrà sbattuto i denti sopra più di una volta, e ormai nel privato credo che si sia capito. Nel pubblico, nelle istituzioni pubbliche, è ancora una cosa non facile da far digerire, perché sembrano sempre soldi un po’ buttati via quelli della comunicazione. Però questo è un discorso che ormai conosciamo bene tutti. Ma tu invece come sei arrivata a tutto questo? Qual è la tua formazione, come sei arrivata a questo punto?
S: Io devo dire che la vita comunque, tante volte non te ne rendi conto, ma ti porta sulle strade che magari hai abbandonato, e ti ci riporta comunque. Perché quelle strade magari sono le tue strade, e per me è stato un po’ così. Perché io ho una formazione comunque artistica, quindi ho fatto un liceo artistico, mi ero iscritta all’Accademia di Belle Arti per fare scenografia, poi ho cambiato. Insomma, un percorso comunque umanistico, perché ho studiato lettere con indirizzo storico. La vita poi mi ha fatto iniziare a lavorare negli uffici comunicazione-marketing di grandi aziende, quindi io ho una grandissima esperienza nell’ambito del marketing della comunicazione digitale di brand. Quindi ho lavorato tanti anni in multinazionali, in uffici marketing-comunicazione, specializzandomi in social media marketing e comunicazione digitale. E poi ad un certo punto mi sono trasferita dall’Italia alla Svizzera, per motivi personali, e ho lasciato il mio lavoro, ho preso un momento di pausa. E devo dire che sono stata molto fortunata, perché tante volte si sentono queste storie di persone che sono ripartite da zero, ma non tutti hanno la possibilità di ripartire da zero. Quindi io sono stata veramente fortunata ad avere questa opportunità di prendermi una pausa, riflettere, e ho capito che io potevo usare tutto il mio background in digital marketing, comunicazione, sul tema che mi appassionava di più, cioè l’arte. E allora ho iniziato a studiare, a capire come attualmente l’online stava invadendo il mondo dell’arte, e stava cambiando. Mi sono resa conto che in realtà l’arte non è stata così drasticamente cambiata dal mondo della digitale. E da lì mi si è accesa la lampadina, ho detto: no, voglio studiare questo tema, voglio sperimentare su questo tema per creare qualcosa di nuovo. E quindi adesso io lavoro con un team che da una parte è composto da storici dell’arte, e dall’altra da persone con profili molto tecnici. E insieme ragioniamo su come creare dei contenuti digitali che diano valore aggiunto all’arte.
G: Diciamo che questa trasversalità di competenze è fondamentale per creare poi qualcosa, come dicevamo prima, che abbia un senso, qualcosa di più interessante che non sia una mero apporto tecnologico. Perché la formazione umanistica ovviamente crea un contenuto, un contesto, dà un senso al tecnico che lo va a sviluppare. Se fosse solo uno, o solo l’altro, probabilmente non si andrebbe da nessuna parte: quindi far lavorare insieme. Il gol è proprio far lavorare insieme tutte queste diverse competenze, che non è sempre facile ovviamente perché diverse competenze, diverse formazioni, sono anche diversi caratteri, diversi approcci, diversi sistemi mentali. Però quando si riesce a creare questo blend, allora lì sì che si ottengono i risultati più interessanti.
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