Ci sono vite di una sola parola

Sergio Saggese

Mi ci vogliono solitamente dieci minuti buoni per arrivare sulla stazione dalla quale prendo tutte le mattine, da anni, il treno delle sette. Attraverso, per arrivare al mio binario, un sottopassaggio che puzza di piscio e ammoniaca, e sulle cui pareti ci sono scritte disperate, numeri telefonici e disegni di falli.

Una volta sulla banchina, non mi siedo, non m’è mai piaciuto, vado avanti e indietro a leggere le scritte sui muri. Mi affascinano. Sono diverse nei tratti, nei colori, nella doppiezza ma sempre uguale, chissà perché, è in esse l’inclinazione delle lettere: tutte rivolte come tanti aghi di bussola al nord. Mi ritrovo a dover rileggere di continuo quelle vecchie, come se dovessi sollevarle con gli occhi per scovarne, affastellate l’una sull’altra, di nuove. Sono sottili e beffarde, allineate come corvi sui cavi dei tralicci, e mi piace fantasticare su come possano essere quelli che le hanno realizzate. Alti, bassi, grassi, magri, maschi, femmine, soli, innamorati, incazzati, vecchi, giovani, delusi, infelici, felici. Magari semplicemente stufi. Tutti quanti indistintamente stanchi di trasportarle le parole, e che per questo le scaricano sulla stazione appendendole ai muri come vecchie armature.

Penso che la gente tracci scritte sui muri come i carcerati perché la vita non è altro che una prigione enorme. Ne scovo una che dice: “Ci sono vite di una sola parola”, e mi chiedo adesso quale sia la mia.

Sul treno, a differenza che sulla banchina, capita pure che mi siedo. Quando lo faccio, tendo a mettermi vicino al finestrino per guardare fuori. Quando invece resto in piedi, mi piace piazzarmi nello scomparto dove c’è il punto di snodo tra i due vagoni principali. Mi piace sentire digrignare l’attrito delle guarnizioni che immagino essere il mugugno del treno quando gli si torcono le vertebre.

Dalla stazione da cui parto fino a quella Centrale, l’accelerato attraversa tante piccole stazioni sulle quali ancora mi capita di scorgere qualcuno che, come un tempo, guarda dentro ai convogli veloci con occhi incantati e saluta. Alcuni di questi occhi li incrocio, li fisso e mi commuovo. È la stessa campagna di quand’ero ragazzo quella che il treno attraversa. Non più come un tempo, purtroppo, ma rognosa adesso e nostalgica dell’antica foltezza dei suoi alberi.

Sento arrivare anche oggi, come sempre, dei suoni. Salgono a bordo i soliti tre rom, un adulto con due bambini. Una scena da circo, la vedeste, alla quale assisto da anni: un adulto, che suona la fisarmonica come un cane imbrigliato in una collana di barattoli, e due bambini che girano ciascuno con un bicchiere di carta in mano a chiedere l’elemosina come scimmie ammaestrate. Col tempo, il rom adulto l’ho conosciuto bene, ha la mia stessa età. Lo guardo, stamattina, e trovo che abbia un’espressione da duro, probabilmente a causa della grossa cicatrice all’ingiù che ha tra naso e labbra. “A guardarlo disteso”, fantastico, “sembrerà che sorrida”. “Sto povero cristo”, mi ritrovo a concludere, “sorriderà soltanto una volta morto”.

Finito di suonare, il rom prende a girare per lo scomparto in cerca di offerte. Porta pure lui un bicchiere, non in mano come i bimbi, ma appeso al collo come un sanbernardo la boccetta di cognac. Gli allungo i soliti cinquanta centesimi, e il bicchiere risuona per il tonfo sordo come di una moneta lanciata senza desideri in un pozzo troppo corto.

Sceso alla Stazione di Piazza Garibaldi, passo davanti al solito clochard senza denti e col mento che gli arriva fino al naso come a Braccio di Ferro, che da sei anni a questa parte mi chiede se ho una sigaretta. Gli rispondo d’abitudine ormai, muovendo soltanto una mano, avendo cominciato già dopo la prima settimana di lavoro, sei anni fa, a delegare scorbuticamente ai gesti la mia risposta. In realtà si tratta di un unico gesto, uno soltanto, quello classico dell’indice e il pollice della mano destra messi a pistola facendo roteare la mano sul polso. Cosa che nel linguaggio mimico universale significa: “Nisba, niente, non ne ho, e simili”. Ma che nel mio porta un’aggiunta che è: “… E nemmeno più le parole per dirtelo”.

Il “mi dispiace”, quello, che pure viene, cazzo se viene, e che mi sale dal petto fino alla bocca come un rigurgito, lo pronuncio a fior di labbra quando l’ho già quasi superato. Mi ritrovo a mormorarlo in fondo, più per dirlo a me stesso anziché a lui, che da sei anni si chiederà, visto come lo tratto, se sono o no nient’altro che una merda di muto.

Due semplici dita le mie, ma pur sempre il segno di una pistola: fatto qualche passo, mi punto l’indice contro, me lo schiaccio alla tempia e sussurro: bang!

Dal sottopasso ferroviario a Napoli, salgo in piazza pigliando la scala mobile, prendo il C57 e arrivo a via Duomo che già brulica di gente, attraverso la strada e m’infilo nel gomitolo di vicoli.

Per strada i passanti sono a spiccioli. Trenta al massimo. Di prima mattina la città ha rumori anchilosati, le auto cacciano tossi bianche, i negozianti aprono serramenti con gesti che sembra siano loro incaricati di scartocciare il mattino.

Da qualche parte proviene sempre una canzone. “La musica è il Senso”, mi dico. Di tutto. Sì. Il Senso. E se esiste un dio sarà una specie di accordatore.

Di canzoni ce n’è una che mi piace più di qualunque altra. La conoscono in pochi. Parla del tempo passato e contiene una strofa secondo me bellissima che fa: “I sogni sono edere arrampicate alle sbarre delle ore”. Dà ragione alla mia visione del mondo come gattabuia, e sarà per questo che l’adoro. L’ha scritta un semisconosciuto di nome Victor Fremil. Un perfetto semisconosciuto, ci tengo a sottolineare, perché non sarebbe lo stesso se fosse semplicemente sconosciuto o ultrafamoso. La semicelebrità conferisce un fascino, secondo me, maggiore della fama piena. E parlo di fascino vero, vale a dire quello che ti fa rassegnare e adeguarti a te stesso facendoti apparire agli occhi degli altri inquietamente rassegnato ma al di sopra di tutti di almeno due spanne.

Il successo porterà pure quattrini, ma mai una pace come quella che nasce dalla rassegnazione. E poi c’è una cosa che so: alcuni, famosi non lo diventeranno mai ed è così che dev’essere. Perché certi strumenti suonano meglio se attenuati.

Il suono proveniente da un flauto ha più modulazione, sì, ma quello ch’esce dai fori umili della pietra ha più senso.

Sergio Saggese

Collana Transfert

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