Voi ci siete mai saliti sulla Circumvesuviana? Quel ‘trenino’ che collega Napoli a diversi paesi dell’entroterra e della costa campana. Gennaro Chierchia, che vive a Gragnano (la città della pasta) in provincia di Napoli e lavora nel nord Italia, conosce bene questo mezzo di trasporto e ci racconta i personaggi incontrati durante uno dei suoi viaggi di ritorno al suo paese.
Buona lettura!
La Circumvesuviana è un serpentone tatuato da mani giovani e febbrili su una linea ferrata biforcuta che porta alla metropoli napoletana in una direzione e alle spiagge della costiera nell’altra. In mezzo c’è il vulcano appisolato che si indora di una luce accecante o di una nebbiolina fresca che solletica la pelle a seconda del tempo. Che in questa giornata di giugno è incerto come la vita in dirittura d’arrivo. Nel suo ventre si ammassano giovani e vecchi, madri e padri e ragazzi, in questo periodo di pacchia, a iosa. Colla mia presenza e la mia età rappresento spavaldo la terra di mezzo, che è anche quella di nessuno. In un altro vagone, in un altro viaggio, una ragazzina audace mi chiamò «zio». Io sono lo zio. Che, dopo tanto patire, ricerca «l’ozio». Nomen omen. Come quel gruppo di adolescenti lì, spaparanzati, sui sedili comodi solo se si assume la postura corretta, come piccoli imperatori, che ridono di gusto una risata genuina, che hanno pelle abbronzata di mare, lievemente scottata dal primo sole, e si aggrovigliano di arti caldi e possenti di forze freschissime. Che hanno quella pelle priva di veri peli e quelle acconciature intercambiabili da pupazzetti Lego. Che suggeriscono all’ambulante di turno, munito di pianola raccattata ai piedi di un bidone dell’immondizia e preceduto da un bambino in miniatura che fa da apripista reggente una stupida sinistramente mimetica, di smettere la sua musica lacrimevole e di attaccare col tema portante de Il padrino, che pure non ha niente di allegro ma è quello che vogliono che odano le loro orecchie influenzate da un sonoro filmico che, stretto il territorio in cui vivono nella morsa della malavita, è per forza di cose influenzato dalle musiche di ganster-movie, patrii o hollywoodiani come nel caso specifico. I finestrini sono tutti abbassati a metà (il limite consentito) sicché, all’arrivo della brezza che porta in groppa le goccioline di una pioggia fresca, il vagone si riempie di una tempesta in miniatura; le acconciature, la mia compresa (abbastanza voluminosa a dirla tutta), vanno in scompiglio e i passeggeri si massaggiano le braccia stretti all’angolo alla mercé del vento picchiatore. Ben voluto, s’intende. Giunti a destinazione, sulla pensilina di cemento della stazione di via Nocera, si tira fuori l’ombrello (chi ha avuto l’accortezza di portarselo seco infischiandosene che non sia appropriato cogli infradito ai piedi) o si decide di affrontare l’acqua con quella spavalderia di chi, come me, ci si è abituato vivendo nella provincia di Novara. Dal fondo della strada, oltre il passaggio a livello, giunge il suono grasso e potente di tamburi sincronizzati, sembrerebbe in combutta coll’arrivo del treno. Con altri sosto sul marciapiede e osservo sfilare uomini di ogni età portanti stendardi multicolori dai nomi altisonanti e vestenti uniformi di altri tempi che proprio non riesco a fermare in un punto preciso del rullo storico e che perciò prendo per quel che mi appaiono: una gioia per le mie pupille ingrigite dalla vista di troppo nulla. Lo scarabeo bianco che è il taxi che mi riporterà a casa deve fare il pieno di passeggeri altrimenti non si schioda dalla fermata in leggera salita, fortunatamente non battuta dal sole in questa serata piovigginosa, scioccata da uno scirocco in vena di scherzi. Mentre l’autista mi parla di vespe rubate e di altre aggiustate coi pezzi «estrapolati» dalle prime e di come fare perché le prime ritornino ai legittimi proprietari (tengo appunti mentalmente, anche se saranno dieci anni che non porto una vespa) la ragazza in carne che mi è seduta accanto stretta in un completo-confetto rosa-bianco proprio non ce la fa a non sfregarmi la sua cosciona contro la mia coscia, rilasciando attrito calorico. Stretto tra parole che sono il soliloquio surreale di un matto davanti allo specchio in un sanatorio in pieno italico boom economico e lo sfregamento-approccio mascherato, sopravvivo grazie ai due emisferi che compongono il mio cervello surriscaldato. Che grazie a dio sono separati e uniti allo stesso tempo. Come due gemelli siamesi alla nascita indivisi.
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Linguaggio sintetico volutamente affastellato da una sintassi tutta reinventata per corrispondere visivamente alla vivacità caotica di una esperienza in cui azione emozione stimolazione di sensi si fondono in una accelerazione emotiva senza tempo lineare.
Un quadro sapido e aggressivo