Se in Fuoco amico, la precedente raccolta di Maccari, c’era spazio ancora per una forma di resistenza (seppur opposta a nemici kafkianamente imponderabili e nel perimetro di un’irrealtà appena squarciata da sintomi esterni di vita) qui, nonostante il titolo tatticamente bellicoso, siamo al principio di una resa.
I sogni, di cui nello sconcerto è pur grato il poeta, non sono comprensibili; non vengono più ricomposti nella disperante ricerca di un’identità attendibile in cui porsi e a cui opporre nemici riconoscibili.
Qui, occorre «smettere la fatica / abiurare smanie e pigrizie».
Si cammina soli, in queste poesie, e lo stupore di un nuovo evento viene salutato con calma, sì, ma senza gioia, se degli incantesimi del Mondo si riconosce ormai ogni formula, ogni artificio, e si può, si deve «rinunciare al conforto di non sapere».
Ecco che tra versi sempre pronti a troncarsi, tra referti cronachistici in bassa definizione e prose asciutte che non si concedono fughe o sbalzi lirici, Maccari, con uno scacco matto, con una definitiva contromossa, può guardare in faccia, da pari a pari, all’ambigua maschera di una
condizione d’esistenza che ci vuole attivi e che – nello stesso tempo – ci incita alla fuga.
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