La costiera sorrentina è stata per secoli oggetto dell’immaginario collettivo europeo ( e non solo). Per questo in genere ci viene spontaneo pensare a essa come a una meta, la meta ambita dei viaggiatori più o meno illustri che quasi in pellegrinaggio vi sono approdati ai tempi del grand-tour e, successivamente, la meta altrettanto agognata delle miriadi di forestieri che vi sono venuti, e continuano a venirvi, da ogni paese del mondo, magari dopo averla vagheggiata attraverso le pagine di Goethe, di Ibsen e dei tanti scrittori che l’hanno esalta tata o sognata sull’onda delle note dei fratelli De Curtis.
Ma, considerandola essenzialmente un punto di arrivo, noi facciamo torto all’altra fondamentale valenza della costiera che per tutto l’ottocento e il novecento è stata anche un punto di partenza, e un punto di partenza determinante per l’economia, e per la storia, del nostro Meridione. Dalle sue marine infatti generazioni di uomini ardimentosi hanno preso i largo verso le destinazioni più diverse, affrontando rotte a volte lunghe, difficili, insidiosissime. Una vera epopea di cui ci parla, e in modo potentemente suggestivo, la mostra che in questi giorni si tiene a Villa Fiorentino a Sorrento (resterà aperta fino al 26 giugno, tutti gi giorni dalle tredici e dalle sedici alle ventuno). Una mostra che non perde tempo in preamboli, ma da cui l’attenzione del visitatore è avvinta ancora prima che si entri, perché già nel giardino ci si imbatte in un macroscopico modelli di brigantino a palo, gentile omaggio dell’associazione «Gaeta e il mare». Ma, potreste chiedermi, che si intende per brigantino a palo? Ecco, è un tre alberi che a due vele quadre ne affianca una terza, triangolare (detta «aurica»), e che a inizio ‘800 sostituì come nave da carico le tipiche imbarcazioni fin’allora in uso (polacche e tartane). Informazioni dettagliate (e preziose per chi è innamorato del mare) che mi vengono fornite da Massimo Maresca, il quale, oltre a essere (insieme a Biagio Passaro) il curatore della mostra e del catalogo, è il figlio di Mario, architetto, ambientalista e appassionato di tradizioni marinare a cui si deve la raccolta che qualche anno fa ha dato vita al Museo navale di Meta. Ed è proprio da questo museo che provengono alcuni dei più eccezionali pezzi in esposizione. Come lo «specchio di poppa» che da un lato rappresenta Maria col Bambino e dall’altro un cavaliere in arcione il quale inalbera al vento una bandiera, e le due polene che raffigurano, la prima, una contrita anima purgante, la seconda un Santo Apostolo dall’espressione estatica (e a questo proposito è l caso di ricordare quanto fosse fervida la religiosità della gente in mare, ma è logico, ha gran bisogno di protezione ultraterrena chi quotidianamente rischia la vita. Sicchè non stupisce che le polene, di continuo intaccate e corrose dalla salsedine, venissero ridipinte quasi a ogni viaggio).
Ma procediamo con ordine: la prima sala in cui si entra è dedicata al «Nino Bixio», il glorioso istituto nautico che a suo tempo fece da modello a quelli di tutto il Regno. Vi troviamo sezioni di navi che sembrano opere d’arte contemporanea e sulle pareti ritratti e foto di scolaresche e di presidi (fra i quali Ferdinando Scarati, il grande cartografo e teorico della navigazione). Poi, nella seconda sala, pannelli che propongono immagini di imbarcazioni, cantieri e cerimonie di varo (con dame ingioiellate, incappellate e infiorate, chierichetti biancovestiti, religiosi benedicenti, folle esultanti). Dopo di che ecco la sala dedicata agli armatori, che son raggruppati a secondo della località dove operavano: così per Vico c’è la famiglia Starace, per Meta la famiglia Cafiero, per Piano la famiglia Lauro. A colpirmi una foto di Gioacchino Lauro (papà di Achille), impositivo personaggio con barba e baffi, ma cattura lo sguardo anche il capitano di vascello Giuseppe Russo, con l’orecchino al lobo, come Corto Maltese. Da sottolineare che si tratta di immagini a volte preziose anche in senso letterale, perché provenendo da musei stranieri, son state ottenute a caro prezzo. Ma in queste sale tutto stimola la fantasia ed emoziona a intenerisce, riportarci a un passato prossimo che sarebbe sbagliato rimuovere e accantonare. Come, tra i tanti modelli navali miniaturizzati (prodigiosa la manualità degli esecutori), l’incantevole riproduzione di un battello con vele di seta e scafo di velluto (opera, mi dicono, di un artigiano di New York). O come le casse in cui i marinai tenevano la propria roba (sull’interno del coperchio son ancora incollati i santini e le foto di spose e figli). In pratica su ognuno di questi oggetti si potrebbe scrivere un romanzo, ma menzionarli tutti è impossibile. Sicché, prima di concludere, è forse meglio fare un po’ di storia. E, attingendo all’introduzione al catalogo, curata da Biagio Passaro, sottolineare come la marineria sorrentina, la quale già alla fine ‘700 rivaleggiava con quelle europee, spaziando nel mediterraneo e azzardandosi pure, quando le grandi potenze erano in guerra, a «uscire da Gibilterra per inserirsi nei traffici col Nord Europa e le Antille», durante il periodo napoleonico sia divenuta anche più concorrenziale in seguito al contatto con le flotte di Francia e Inghilterra (è allora che furono introdotte le unità di misura decimali). E come di ulteriore incremento essa abbia beneficiato quando l’importanza dei nostri mari è stata accresciuta dall’apertura del canale di Suez. Appuriamo anche che alcuni armatori della costiera hanno avuto rapporti d’affari con grandi imprenditori napoletani (per esempio il Sarace con i Meuricoffre).
Insomma una mostra in grado di coinvolgere sia il visitatore indigeno che con emozione vi ritrova le proprie radici sia il turista venuto da lontano il quale vi scopre una dimensione sorrentina che non si risolve nell’amenità del paesaggio e nelle atmosfere vacanziere. Una mostra a cui portare le scolaresche, perché quella che narra è una storia tramandata di coraggio, perseveranza e competenza, e quella che vi si riflette è una società che, pur avendo chiara coscienza della propria identità, con il diverso, con l’altro da sé ha sempre cercato a affrontato l’incontro e il rapporto.
No responses yet