È difficile immaginare che oggi si possa essere artisti senza far parte di quel circuito commerciale che fa di questo lavoro un calderone di compromessi pubbliche relazioni appostamenti politici e produzioni seriali. È difficile immaginare un mondo dell’arte diverso da quello che ci presentano le fiere e le sempre più prezzolate riviste del settore. Tuttavia non è questo il mondo da cui emerge Vito Tongiani.
Tongiani, a dispetto di tutto quello che è lo star system dell’arte contemporanea, viene fuori dal silenzio della terra, dal respiro lieve delle colline, dal ritiro nella Tenuta Galliena dove vive lontano dal chiasso e dal clamore dei riflettori puntati su tutte quelle ombre che non riescono a brillare da sole. E da questo ritiro guarda il mondo, lo osserva e lo ferma, a tratti, su tele dal sapore spesso parigino, ma di una Francia che non c’è più, che non ha più da concedere le stesse emozioni che accordava a chi l’ha vissuta molti anni fa a caccia di vita e di fortuna.
Quello che vede è un mondo che gli va incontro e che lui incontra liberamente, senza pregiudizi, ma che attraverso con il suo filtro artistico rende cosciente finendo, forse, per restituirgli una più profonda conoscenza di se stesso.
Tongiani non è l’artista in continua ricerca di qualcosa da dipingere o a cui dare forma: lui trova senza cercare, e riporta puntualmente nel suo diario di viaggio, come in un taccuino di emozioni d’altri, annotate con complessa semplicità e che, sfogliate, ci conducono attraverso stanze della memoria in cui rivivono i personaggi incontrati, i luoghi vissuti, le donne amate, i colori respirati.
Ma se la pittura è sicuramente per Tongiani una necessità interiore quotidiana, un normale modo di fare, è diventata, probabilmente, anche un rifugio dall’impossibilità di fare Scultura con la ‘S’ maiuscola, una fuga dalla mancanza di sensibilità di chi ne è spettatore e fruitore ormai ignaro dei canoni della bellezza, nonché dall’inadeguatezza delle capacità e delle competenze esterne che dovrebbero supportare uno scultore nella realizzazione della sua opera.
L’idea dell’artista, il lavoro minuzioso del cesello, la perfezione formale, la ricercatezza di ogni più invisibile piega dell’anima della scultura è oggi, purtroppo, ben lontana da ciò che esce dalla fonderia e che diventa poi l’opera che ci viene restituita: qualcosa che assomiglia, in una percentuale più o meno bassa, all’idea originaria, divorata dalla fretta, scarnificata, raspata, fresata, tirata via dall’insensibilità di diverse mani ignoranti. Mani che ignorano ormai il lavoro vero, quello di bottega, quello di fino, sempre più costrette a produzioni seriali di culoni boteriani che devono velocemente uscire per andare a decorare le piazze di chissà quale mondo rassegnato alla bruttezza. La morte esiste perfino in Arcadia.
Per Tongiani, invece, la scultura è una sola: quella che dagli egizi a Bernini ha teso un filo sottile attraverso la storia dell’arte scrivendo le regole dell’armonia e della forma che, per quanto esasperata e arrotondata o semplificata e geometrizzata, risponde comunque a quelle regole di intersezioni di piani e di rette che rendono un pezzo di materia degno di essere chiamato Scultura. Il resto è forma che occupa lo spazio, non-scultura, non certamente arte.
La sua essenzializzazione del disegno non lo allontana mai dalla figurazione, ma ne semplifica gli eccessi, restituendo un’eleganza formale che sembra provenire dall’interno stesso della materia, ma che scivola sulla superficie marmorea o bronzea con una sensualità ed una carica espressiva che è ciò che fa di Tongiani un grande artista.
Non è, quindi, uno sterile legame con la tradizione che vincola il suo lavoro scultoreo a canoni ormai riconoscibili da pochi occhi non ancora assuefatti all’accettazione incondizionata della mediocrità. Bensì la profonda convinzione che non esistono altri modi di rendere finita un’idea, non esiste un’altra scultura solo perché giustificata da idee bizzarre e filosofie vuote: non servono punti di vista pseudo-soggettivi che attraverso discorsi e parole piene di niente costruiscono apparati critici solidi come castelli di carta; esiste, invece, ancora, l’Arte che non ha bisogno di pagare dissertazioni utili solo a nascondere l’incapacità di ideare e, soprattutto, realizzare qualcosa che possa davvero essere chiamata opera d’arte.
Ed è questa consapevolezza e questa dignità di artista che trasuda dai personaggi delle sue opere: una dignità mai artificiosa, ma espressione di una fierezza del proprio essere, sia che si tratti di una donna in fuga sotto i bombardamenti della linea gotica, sia che rappresenti la passione di uno scrittore che noncurante del traffico e del caos che lo circonda si siede dove capita e con la sua macchina da scrivere sulle ginocchia da libero sfogo alla sua voglia di parole.
Il monumento a Indro Montanelli (collocato a Milano nel parco a lui dedicato), è forse per Tongiani una metafora della sua stessa vita e del suo lavoro, un cerchio che si chiude. L’impellenza della creazione non cerca comodità, non necessità tecnologie avanzate e uffici superaccessoriati e iperinternettizzati. La macchina da scrivere è lo scalpello che scolpisce il bianco foglio di marmo, un colpo per volta, una lettera per volta. È lontana dalle sofisticazioni della velocità contemporanea, ha bisogno dei suoi tempi e non se ne vergogna. Il tic tac, l’aritmico martellio che l’accompagna è il ritmo necessario da ascoltare per ritornare a vivere la poesia che si nasconde in gesti che stanno scomparendo.
Tongiani è cosciente che viviamo in una società che ci impone una razionalità pedante, ma lui si ribella a questa legge che pretenderebbe di ingabbiare e calcolare anche i sentimenti e la fantasia: la sua opera non è frutto di un programmato sviluppo seriale, ma il percorso incerto e sorprendente di una persona che vive, imponendo i suoi principi, forte della consapevolezza delle proprie idee e delle proprie capacità, ma con tutti gli imprevisti che un incedere del genere può riservare.
È così che si intrecciano stili e tematiche, anche lontane: umori africani, soggetti mitologici, erotismo e narrazione, contemplazione paesaggistica e ricerca psicologica, guerra e poesia pura. Tutto questo fa parte della vita, di quella di Tongiani come della nostra e la sfida, oggi, sta nell’uscire dal vortice che ci trascina con forza verso mete imposte da altri. Sta nel non dimenticare, quando siamo davanti al tramonto, di volgere lo sguardo nella direzione opposta dove invece di vedere come ci si immagina i tenui colori dell’imbrunire scopri che sull’orizzonte, fra la terra e il cielo c’è un’alta banda di un indaco luminosissimo che verso l’alto diventa violetto rosso arancio giallo verde chiaro e azzurro pallidissimo.
Lì, forse, è l’Arcadia che invano cerchiamo, al confine fra il nostro passato ed il domani: il luogo in cui il reale e l’irreale, il mito e l’oggettivo si fondono dando vita ad immagini sfumate nel tempo e nello spazio… et in Arcadia ego.
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Articolo pubblicato su con-fine art magazine n.1 – marzo 2006
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