Ho incontrato questo libro proprio mentre stavo lavorando al progetto della mostra sulla scultura italiana del ‘900. Quasi mi fosse venuto a dire: cosa pensi di fare, giocare al curatore di mostre di scultura senza passare dal via?
Eh si, dopo quella con Arnaldo Pomodoro questa è la seconda grande mostra di scultura che mi trovo a organizzare e, se per la prima l’ho ‘fatta franca’, con la seconda ho dovuto necessariamente fare i conti con Giovanni Carandente. Il libro mi ha intimato, senza mezzi termini, di andare a vedere la mostra alla Fondazione Arnaldo Pomodoro e, così, mi sono ritrovato con il mio compagno di scorribande Claudio Mazzanti in una splendida serata milanese di fine novembre – di quelle che quasi quasi ti fanno anche innamorare della Città -; e in una conversazione a tutto campo con Stefano Esengrini sulla scultura contemporanea, a partire dalle parole e dalle più rilevanti opere pubbliche di due indiscussi protagonisti del Novecento: David Smith ed Eduardo Chillida.
In anticipo come al solito: in attesa della conferenza subito visita alla mostra. Sapevo già, abbastanza superficialmente, cose fosse successo a Spoleto in quel ’62. Ma vedere materializzata lì, seppure in scala ridotta negli spazi della Fondazione, quell’esperienza irripetibile mi ha dato subito quel senso di nostalgia del non vissuto che a volte mi prende quando rifletto su episodi appassionanti, ma tanto lontani dal mio tempo.
[Apro una parentesi. Scrivo queste cose a mostra chiusa, a distanza di un po’ di tempo, sia perché non amo tanto essere celebrativo tout court, ma sopratutto perché ho dovuto un po’ metabolizzare l’incontro, per molto tempo rimandato, con questo pezzo di storia della critica d’arte].
Ogni mostra è sempre un’avventura, e chi fa questo mestiere lo sa bene; ma quella di Carandente a Spoleto la definirei senza mezzi termini una follia lucida: nel 1962, in occasione del quinto Festival dei Due Mondi furono collocate nelle piazze della cittadina umbra centodue opere dei maggiori scultori italiani e stranieri, dando vita ad una grande mostra di scultura all’aperto assolutamente innovativa.
Ma dov’era la novità? La rivoluzione stava nel coraggio di ‘profanare’ un centro storico come quello, con il linguaggio contemporaneo della ricerca plastica, costringendo gli abitanti del luogo, i turisti e chiunque passasse di lì a “sbatterci” contro e a far di quel linguaggio abitudine, vita quotidiana, normalità. Non più monumenti, ma momenti.
Fu, quella, la prima volta in Italia che si riuscì a creare un vero e proprio museo di arte contemporanea a cielo aperto, senza porsi troppi problemi ‘museografici’.
Ma qual’era stata l’intuizione di Carandente? Cosa aveva teorizzato?
Carandente aveva percepito la possibilità di instaurare un dialogo: fra il luogo, il pubblico e la scultura, liberando quest’ultima dalla condanna di essere mera decorazione dell’architettura e restituendole come nel passato dai greci dell’Antelami al Verrocchio a Bernini, una vera e propria funzione autonoma.
Anche Arnaldo Pomodoro ci ha sempre insegnato questo e lo ha dimostrato nella mostra Rive dei Mari che abbiamo realizzato a Sorrento nel 2015 fra la Città e Villa Fiorentino; le sculture sono entrate nello spazio e lo hanno modificato, rendendolo unico, diventando città e facendo della città un’opera d’arte. Ed è proprio in questo spirito che stavo pensando ad una grande mostra sulla scultura italiana del ventesimo secolo.
Ma, se l’incontro con Carandente da un lato ha rafforzato queste motivazioni, dall’altro mi ha posto una serie di questioni urgenti. Come ebbe a dire Pietro Consagra il miracolo Carandente si era potuto verificare avendo suscitato l’interesse della cittadinanza, degli industriali, … è possibile oggi ripetere questo miracolo? Quello che dobbiamo chiederci è COME dobbiamo suscitare l’interesse della cittadinanza; COME possiamo coinvolgere sempre di più gli imprenditori perché diventino parte attiva di un accordo così possibile e meraviglioso?
Lavorare per avvicinare il pubblico all’arte e non solo per soddisfare il nostro ego di curatori (se vogliamo chiamarci così) oggi è forse diventata una priorità e una responsabilità abbastanza grande, tanto quanto quella di essere rigorosi dal punto di vista scientifico realizzando dei progetti che abbiano un reale valore e non siano solo dei nuovi modi di ‘fare cassetta’. Il messaggio che ci ha lasciato Carandente è che il successo di un evento dipende innanzitutto dal coinvolgimento del territorio e della sua popolazione, che se ne appropria e se ne fa per prima sostenitrice e promotrice.
E allora quello che mi chiedo e che vi chiedo è: ancora tutto è felice nella vita dell’arte?
Cosa possiamo fare per rendere ancora meraviglioso l’incontro tra il pubblico e l’arte?
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