“Allora? Quale porto?’’. Il maglione blu e quello rosso sono piegati sul letto, in silenziosa competizione. La valigia è ancora aperta, stracolma di cose da portare.
Alle mie spalle gracchia il televisore acceso. Il tg manda in onda le ultime immagini dall’Italia. ‘Il Paese nella morsa del gelo’, recita la giornalista. ‘Decine di morti, disagi alla viabilità, strade in tilt’. Nel servizio compare un serpentone di macchine e camion bloccati nella notte sulla statale di Sora. Poi la scena si sposta su un paesino dell’Abruzzo sepolto dalla neve. Infine una ripresa dall’alto mostra il Colosseo completamente imbiancato.
L’Italia di questi giorni mi sembra un mondo lontano, da casa mia, un pianeta apparso attraverso lo schermo del televisore.
Nella provincia nord di Napoli, dimenticata da Dio e dalle telecamere, l’inverno che sta rovesciando sull’Europa neve e morti è arrivato quasi distrattamente. Il vento che fa ballare i pali della luce giunge ormai fiaccato dopo aver spazzato le cime dell’Appenino. È solo un vago ricordo della tormenta che ha trasformato l’Italia in un pezzo di Siberia.
Dalla mia finestra, al terzo piano, intravedo un cielo bianco. Somiglia ad un unico blocco di ghiaccio.
Ogni tanto fiocca un po’ di neve mista a pioggia.
Un palazzone enorme color ocra mi ostruisce la vista. Non riesco a vedere l’angolo che incornicia il Vesuvio innevato.
“Potresti portare questo rosso’’, mi dice mamma distogliendomi dai pensieri. “E’ più pesante. Prendilo”. Me lo stringo fra le mani, lo rigiro. Un filo di lana mi resta impigliato fra le dita. Infine lo ripongo nel valigione aperto sul letto della mia stanza. È lì, da settimane. Come l’indecisione che mi fa rigirare di notte, che mi tiene sveglio. ‘Che altro potrei fare?’, penso. E’ matematico: giovane, meridionale e persino bamboccione.
“No, Ma’, forse è meglio quello blu”, replico senza convinzione. Giusto per fare di testa mia, per dire il contrario di quello che mi dicono di fare.
Mia mamma ha ancora gli occhi assonnati. Non si oppone ai miei capricci, dice sempre di sì. Così come fa per il maglione, che sostituisce immediatamente senza dire nulla.
Poi chiude la valigia, impugna la zip. E prima di girarla solleva un’ultima volta gli occhi e mi fissa. “Ma’, è inutile che mi guardi: oggi ho deciso per davvero”, ringhio, sapendo già dove vuole andare a parare. E chiude la zip con uno scatto rapido, quasi strappandosela dalle dita.
Prendo il valigione dal letto facendo forza su un fianco. Attraverso il corridoio della casa, seguito da lei che cammina strisciando le pantofole sul pavimento.
“Dai, che è ‘sta faccia da funerale?’’, le dico mentre sulla soglia della porta si alza in punta di piedi e prova ad abbracciarmi. Trattiene le lacrime come in una fiction della Rai. “Manco avessa’ parti’ per il Vietnàm…’’.
Il Vietnam, già. In fondo quella di oggi somiglia un po’ ad una guerra. E’ la guerra degli Stati contro lo spread, dei precari contro le caste, della fame contro gli sprechi. Ed anche se qui a Napoli la guerra sembra che non sia mai arrivata, anche se non ho a che fare con lo spread e non ho mai fatto il precario, non so perché, voglio andare sul fronte, voglio vedere questa guerra in faccia.
“Ja, fammi andare ché sennò mi perdo ‘sto treno”. Mia mamma molla la presa e mi dà un bacio sulla guancia. Io mi ritraggo subito, insofferente come sono agli addii strappalacrime da famigliola meridionale. ”Fanno bene poi a di’ che siamo mammoni”, le dico sorridendo.
Mentre mi volto, sento lentamente chiudere la porta alle spalle. In quell’istante sono ufficialmente fuori di casa. ‘Con tutta la vita davanti’, mi dico, pensando alla protagonista del film di Virzì.
La mia prima visione da ‘senzatetto’ sono le scale sotto di me, nella semioscurità del mattino, illuminate a malapena dalle luci elettriche del palazzo. Il sole, dietro i nuvoloni bianchi che abbagliano le vetrate, è solo un ricordo.
Premo il pulsante dell’ascensore. Nell’attesa che salga dal pianterreno, mi stropiccio le mani per riscaldarmi.
Sono io, da solo, in compagnia del valigione che mi sta accanto come un macigno. E’ un ritorno al passato, penso, i figli della classe media ritornano a fare i proletari, ad emigrare chissà dove, verso un’ America che non esiste più.
Le porte dell’ascensore si spalancano. Lo specchio interno mi riflette come un naufrago del Concordia intabarrato sulla banchina dell’isola del Giglio. Resto così, immobile per alcuni secondi, forse per paura di fare il primo passo.
Allungo timidamente la caviglia davanti alla fotocellula. Appoggio il piede destro ed entro nella cabina, come se stessi varcando la soglia di un’astronave. ‘Quest’ascensore non può sostenere più di un peso di 350 kg’, leggo sulla piastra metallica attaccata alla parete. Abbasso lo sguardo e incrocio la mia faccia allo specchio avvolta in uno sciarpone. Gli sportelli si richiudono alle mie spalle.
Schiaccio il tasto -1 per i garage. L’ascensore traballa un po’, finché non comincia a scendere, di piano in piano, come in una silenziosa catabasi. 3, 2, 1….‘Forse era meglio il maglione rosso…’, penso in quell’istante. Non posso immaginare quanto freddo farà sul fronte.
Testo inedito scritto da Marco Aragno, autore di Absolute (in uscita prossimamente), per la nostra rubrica ‘Visioni mondaniche‘, dedicata ai racconti degli autori della collana di narrativa Transfert.
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