I racconti a singhiozzi sul Kurdistan

Lorenzo-Giroffi-Racconti-Kurdistan

Eccomi di nuovo a fare i conti con la storia che mi scavalca, con eventi che cambiano geografia e nomi. Il Kurdistan che ho conosciuto è stato di guerriglia, fuga, fame, esplosioni, speranze ed autodeterminazione. Quando decisi di partire il mio desiderio principale, quasi adolescenziale, era quello d’incontrare i guerriglieri del Pkk. Perché avevo fantasticato già diverse volte un incontro con loro, quasi sentendolo come vero. Poi quell’adrenalina è diventata solo una parte del puzzle infinito del Kurdistan assaporato. L’accoglienza di una famiglia a Diyarbakır, con una delle tante figlie in diaspora, per questisoni politiche, ad immergermi in cibo, canti, racconti, raccomandazioni e paure. Questa città, nel sud della Turchia e nel nord del Kurdistan, non è un posto pieno di terroristi, come bisbigliano ad Ankara, ma un odore di frutta fresca lungo tutti i vichi stretti del centro storico e dei palazzoni delle periferie (prodotto questi, di abusivismo edilizio). Blindati della polizia agli angoli delle strade e gente abituata a guardarsi le spalle durante i propri discorsi. Da qui è partito il mio lungo viaggio verso l’Iraq, assaggiando infinite ore nel bus e polvere che mano a mano cambiava l’idioma dal Kurmangi al Sorani. Così l’incontro con i primi posti di blocco iracheni: peshmerga (militari dell’esercito curdo iracheno) alla costante ricerca di infiltrati arabi. Le elezioni in questa regione autonoma (unico caso di territorio curdo riconosciuto politicamente) sono state piene di sospetti e con un attentato sul groppone. Ricordo ancora quando scrissi alle redazioni italiane delle azioni dell’ISIS. Le risposte mi piacerebbe stamparle sul retro dei quotidiani di questi giorni. All’epoca era un gruppo messo su alla rinfusa, che faceva azioni saltuarie in zone remote del mondo. Oggi invece sono i nemici della libertà, potenti e da combattere, esempio o spauracchio, ma comunuque attore principale di una guerra contemporanea. La verità forse è nel mezzo, ma i racconti sono belli proprio perché partono da un punto e poi si sviluppano. Arrivare oggi a descrivere in maniera ossessiva e sommaria l’ISIS è uno scempio.
Mahmura-KurdistanI giorni caldi di quelle elezioni li ricordo. Per la sicurezza con cui i curdi iracheni parlavano della propria area: un qualcosa che avevano in pugno (oggi invece ricevono supporto militare da USA e Gran Bretagna). Un parlamentare curdo iracheno mi parlò della preoccupazione per incursioni di milizie islamiche, ma anche della fierezza della propria autonomia (hanno un proprio parlamento, legato comunque a Baghdad) e dell’ottimismo per le relazioni commerciali con alleati esteri. Ricordo anche le contraddizioni ed il fatto di non poter parlare col governo Barzani (quello in carica nella regione curda irachena, frutto di lotte col regime di Saddam Hussein, quindi di un forte supporto a stelle e strisce) del Pkk. Quel pezzo di lotta curda per quelle istituzioni era da non supportare, perché imbarazzante per le relazioni con la Turchia (il Pkk da decenni combatte contro l’esercito turco per ottenere il riconoscimento dei diritti dei curdi in quell’area). Il Pkk, che ha le proprie basi sui monti dell’Iraq del nord, è stato poi di supporto contro le azioni dell’ISIS, in particolare nel campo di Mahmura, dove vivono curdi fuggiti dalla Turchia. Ritorna quindi l’infinita ipocrisia del termine “terroristi” (il Pkk è ancora nella lista nera di Usa e Ue, ma in questi giorni è stato al fianco dei peshmerga, armati da Usa e Ue).
Mahmura l’ho conosciuta, in un deserto torrido, dove scorpioni e sole si fondono. Saddam pensò di lasciarli in pace i curdi in dipaspora dalla Turchia qui, perché di fatto già c’erano poche possibilità di sopravvivenza in tali condizioni. Invece la determinazione dei curdi ha permesso l’insediamento. Certo, mancano fognature ed ospedali, ma si stanno attrezzando. Tutti i giovani, che ogni mattina vanno a studiare fuori dal campo, sognano di emanciparsi il prima possibile, per diventare medici, ingegneri, lavoratori di ogni genere non più in diaspora ed in un campo profughi, ma in un posto che da inospitale può ridisegnarsi accogliente. Un sindaco eletto, l’isolamento, i sogni. Lascio tutto ciò con una notte ed altri chilometri da macinare nell’Iraq del nord: per altri pezzi di Kurdistan, quello in fuga dalla guerra siriana.
Il sole nei campi profughi è davvero qualcosa di poco fastidioso rispetto alla cadenza di giorni sempre uguali, perché imprigionati nella violenza. Amati persi, convivenza forzata, cibo da contare, ghiaccio tuttofare, letti da inventare e tende da benedire. I curdi del Rojava (Kurdistan siriano) nei campi profughi di Domiz e Bardarash mi parlavano dei loro viaggi, delle minacce subite da cellule impazzite che strumentalizzano la religione.
L’abitudine in strutture di lamiera, guardarla e poi scappare come un ladro di altre storie.
Ad ogni posto di blocco cresceva la curiosità, aumentava la disinibizione col rischio e le bugie: ero diretto verso i monti della guerriglia. Tornanti ed altura che spazzavano via i pochi segnali stradali rimasti, perché nulla più dovevo sapere. Poi la notte, i nomi in codice e l’accoglienza. Uomini e donne che vivono con la propria idea di vita abbracciati alla lotta. L’estrema difesa armata del diritto ad essere curdi. Gli ideali di ecologismo e femminismo da miscelare a quella che è comunque una vita di presidi ed azioni improvvise. Il Pkk in quelle ore non era una sigla da partito clandestino o quant’altro, ma un insieme di uomini e donne che stavano condividendo con me il loro tempo, la loro filosofia, il fuoco per cucinare, i rifugi per dormire, i ratti da scacciare. I kalashnikov davvero passarono in un piano subalterno. La notte, le interviste, i bunker, le mine e poi il viaggio di ritorno.Via dalla guerriglia, con tutto il materiale raccolto da occultare, spingendomi verso un altro nauseante confine, dove aspettare ore di controlli. Il confine. Sembrava essere diventato questo il luogo del mio viaggio. Come se il Kurdistan conosciuto fosse solo una lunga fune tirata e pronta a spezzarsi. Non è così. Lo è per me e per i chilometri passati in ognuno di quei fottuti bus.
Nusaybin-SiriaNusaybin e Qamishlo. Curdi da un lato e dall’altro, divisi però da una barriera coloniale. Per questa ragione una città è siriana e l’altra turca. Stati che in un modo o nell’altro hanno offuscatole componenti curde. Da Nusaybin il filo spinato ed il muro in construzione, da Qamishlo i tunnel costruiti per aggirare l’isolamento e ricevere viveri, medicamenti ed altro utile a non soccombere in un’estenuante guerra. Una donna dal volto segnato ed occhiali irrequieti da muovere sopra la sua frangetta. Lei si stava battendo contro la costruzione di un muro imponente, voluto dal Governo turco per impedire “contagi” dal Kurdistan siriano. Questa misura ha visto mimetiche ed armi da esercito intensificarsi tra queste due città. Parte della città si stava battendo affinché s’interrompesse quella barriera, perché ciò sarebbe ed è stato un irrimediabile blocco al sostegno tra curdi, che considerano ancora Nusaybin e Qamisho come un’unica città curda, con amici, familiari ed anime gemelle incastrate nel bel mezzo di filo spinato. Durante quei giorni riuscì per una volta ad addentrarmi, per non finire solo ai bordi. Decisi di ritornare nella capitale del Kurdistan turco, Diyarbakır, per lasciare al caso incontri con sconosicuti, fomentatori di nuovi spunti. Con l’istinto a spingere verso la fiducia reciproca, passai notti con gente che, senza facili entusiasmi, potei definire amici. Schegge da diversi angoli della società, che potettero farmi capire cosa significa identità senza nazionalismo ed eccesso patriottico: solo libertà di riconoscersi nell’armonia di una musica, nella lingua di una poesia e nel nome da ricordare con i colori di una bandiera. Volontà di decidere quando utilizzare il ventaglio culturale del proprio popolo e quando miscelarsi con altro. La repressione rischia sempre di pompare il desiderio ardente di rivalsa, ma su di un tappeto attorno ad un libro da sfogliare a turno, per leggere versi in curdo, non assaporavo ciò, ma solo il volere caldo di poter convivere: convivenza e riconosimento. Riconosceteci in quanto diversi e come tali condivideremo meglio tale culla della civiltà umana…

Lorenzo Giroffi

Questo è l’ottavo racconto che Lorenzo Giroffi, autore di Visioni Meccaniche, ci regala per la nostra rubrica Visioni mondaniche.

Collana Transfert

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