Contromosse di Paolo Maccari

Il Foglio QuotidianoQuesto agosto, per me, è proprio il mese dei bambini. Appena tornato da Creta, ormai indissolubilmente legata alla quattrenne Letizia, il 17 vado a Firenze a incontrare per la prima volta Stefano Maccari, il figlio di due mesi del mio amico Paolo e di sua moglie Veronica. Con la sua boccuccia aperta a cuore e i suoi occhietti semichiusi, Stefano è un bellissimo bimbo dall’aria orientale. E’ tornito, quasi panciuto, e liscio liscio, senza le rughine da centenari di tanti suoi coetanei. E’ anche straordinariamente placido, ed emette rari indolenti versi di soddisfazione.

Paolo indica fiero i suoi piedini che già gli s’impuntano sulla pancia, e per divertirci lo apostrofa con maschia grevità toscana.

Poi lascia un attimo il figlio carnale, e va a prendermi una copia del suo figlio poetico, nato insieme a Stefano: la raccolta di versi e prose “Contromosse”, edita da Con-fine. Per chi non lo sapesse, Paolo Maccari è oggi uno dei migliori scrittori italiani, senza distinzioni di genere. La sua prosa critica elegante e severa (ha curato opere di Bacchelli, Campana, Gnoli) non sfigura davanti a quella del suo maestro Luigi Baldacci. Le sue poesie, invece, devono qualcosa al manierismo di Raboni e all’araldica luttuosa di Cattafi. Ma le allegorie naturali e belliche, suggerite fin dai titoli (il libro prima di “Contromosse” è “Fuoco amico”), ricordano soprattutto certi quadri composti, allucinati e atroci di Fortini.

La guerra qui è metafora che serve a raccontare per contrasto la palude di una realtà quotidiana informe, in cui i fronti non sono chiari, e in cui si scivola subdolamente dall’intimità all’estraneità. La poesia di Paolo parla di situazioni dolorose ma senza gloria, di un’esistenza nella quale “l’incubo è abitabile”. E lo fa esibendo un nichilismo tutto “biologico”, che con la malafede della speranza rifiuta anche gli alibi e i risarcimenti ideologici delle teologie negative: “No, non saranno esaudite promesse / e preghiere invischiate con presagi / disperati, e non sono ammessi plagi / di altrui spensieratezze” dice un suo vecchio testo. “Contromosse” è un libro di apologhi e di orazioni sfigurate, di scene kafkian-hopperiane e di scorci narrativi dominati da un’insensatezza struggente, immedicabile. Per l’autore la vita somiglia a una oscena battaglia senza onore delle armi, dove non si vedono integre figure umane di amici e avversari, ma affiorano solo arti scomposti, dettagli di un mondo esteriore e interiore percepito come una scenografia falsa, miserabile, ma senza scampo: “Prima una recita il mondo e le genti sul palco. / Ora sul marciapiede di fronte / all’uscita colorata osservo / come un cane affamato / che attende pietosi avanzi / l’amoroso scontrarsi di omeri aguzzi…) E non c’è addio, non c’è morte che redima . / La resa è una tana , il riposo un recesso./ Deposte le armi, deposte ancor prima / le emozioni del combattimento, / non so a chi consegnarmi”. Ma oggi il nichilismo biologico maccariano è trionfalmente contraddetto dal piccolo sazio buddha che il poeta e Veronica si palleggiano tra il divano e il tavolo. Dopo pranzo andiamo a sederci in un chiosco sull’Arno insieme ad Alex Caselli, altro giovane e notevole poeta, che è un po’ l’editore di “Contromosse”, e che è venuto con me da Bologna. Anche Alex sta per diventare padre: e ora lui e Paolo, con un tecnicismo che mi intimidisce, si mettono a discutere del raggio visuale dei neonati e del grado di morbidezza delle ossa craniche, dei massaggi insegnati nei corsi preparto e della resistenza in sala parto, delle ideologie dei pediatri e dell’inarrivabilità dei Pampers, della poppata libera e della poppata a tempo. Poi si voltano verso di me: “E tu, quando ti decidi?”, chiedono. Allora mi torna in mente che poco tempo fa una donna, con ben altra autorità e altro interesse, mi ha posto la stessa domanda con le stesse parole. A vent’anni l’avrei accolta con disponibile spensieratezza, a trenta mi ha fatto correre un brivido per la schiena. Rido, abbozzo, soppeso la mia copia di “Contromosse”, e cerco di riportare il discorso sul figlio poetico di Paolo: il suo nichilismo improvvisamente mi rassicura.

di Matteo Marchesini
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