Riflettevo, giorni fa, come negli inserti di alcuni quotidiani fosse tornata la piacevole consuetudine di pubblicare un testo in versi, magari con breve commento. Consuetudine che rimanda al passato remoto di una fresca società borghese in cerca di legittimazioni culturali o al passato prossimo di alcuni felici esperimenti nella post-modernità (penso alla rubrica tenuta da Alfonso Berardinelli su «Panorama» dalla fine degli anni Ottanta, che affiancava alla poesia di un autore classico o comunque canonizzato, un micro-saggio del critico).
Ecco dunque ricomparire singole poesie (senza particolari contingenze con la stretta attualità, e dunque senza il ricatto di quest’ultima) affidate nude ai lettori, o al limite commentate da poche parole. E così, anche, fanno la loro parte i testi di autori italiani contemporanei. Ho letto, in queste ultime settimane, gustandomeli doppiamente, i versi di Paolo Maccari, Matteo Marchesini e Mariagiorgia Ulbar, autori diversi tra loro ma col pregio comune di una scrittura non schermata, aperta e coraggiosa.
Mi sono poi chiesto quale poesia – sempre di un poeta italiano contemporaneo – mi piacerebbe trovare su pagine a diffusione nazionale. Me ne sono venute in mente tante (segno che, nella crisi di Santi e navigatori, almeno i poeti in Italia non mancano!). Quasi subito, tuttavia, la mente è andata al testo, che sotto riporto, del romano Paolo Febbraro.
Cosa si può dire, ancora, su quelle (poche) ore fatali che segnarono l’epilogo terreno di Gesù? Che verità umana si può trarre da un episodio cruciale, che teologia e storiografia hanno indagato in ogni sua piega?
Il Gesù, che registra qui da un’altezza “paradossale” (come lo stesso Febbraro l’ha definita in un’intervista) quanto avviene ai suoi piedi, è un uomo che soffre nel presente e nello stesso tempo che sa vedere lontano. Dopo il tradimento di Giuda, e i rinnegamenti di Pietro, già vede gli uomini, tra cui i suoi seguaci più cari, che mentalmente conteggiano i profitti del martirio.
Serviva, qui, la chiave di volta di una congettura. Febbraro la trova immaginando (il periodo inizia con un «se») che la pietà (brutale, ma umana) di un soldato romano accorci la pena del condannato con la rottura dei ginocchi – di un crurifragium su Gesù, come sappiamo, non vi è traccia nei vangeli; l’agonia, più breve del previsto, non lo dovette richiedere.
Ma ecco, a partire da questa invenzione, Febbraro immagina un primo tradimento post-mortem, o, forse, il tradimento primo. Gli «schierati», che già della scena ricavano un simbolo celeste, non vogliono vedere. Lo spettacolo di un’umanissima sofferenza, non li interessa sul serio; la intendono soltanto come un mezzo – con cuore e pensieri sono già oltre. La loro pietà è già devozione per un simbolo (che reclamano «inconsutile, per intero»), non più per l’uomo.
I giorni felici di Galilea, le parole traboccati d’amore nel contesto di una natura soave, tutto è dimenticato. Era un essere umano a parlare, lì. Ora, impazienti, di quest’uomo che fu il loro Maestro, non attendono nemmeno la fine. Senza pietà, astratti e precisi, già guardano oltre.
Pietà
Dal tuo mancamento emerge la scena.
Sono in piedi, già ordinati,
presidio umano in compunzione,
chiusi a sipario. I loro sguardi
trapassano, ti fanno celeste
e impiccano a un simbolo destinato.Salvano un’anima a ogni mezzo respiro
che insieme a un altro non ne fa più uno.
Vedi che i graal, le sindoni, le croci
daranno corpo a te che ti prosciughi.
Se la pietà di un sottufficiale
ti accorcia la fine rompendoti
i ginocchi (nella tua mente,
come un’ostia) gli schierati si voltano
per non vedere: negheranno. Ti vogliono
inconsutile, per intero. Dormono
ai fianchi i due ladri. E smette
da destra la Voce: tu piangi il Padre,
il senso e l’abbandono. Reggono
all’eco dell’ultimo strazio,
chiudono il giorno al rintocco del tuono.
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Testo di Alex Caselli, grazie Alex!