Vide bene Luigi Baldacci, quando, in prefazione all’esordio letterario di Paolo Maccari, Ospiti (2000), trovò conferma della vocazione del giovane poeta nella “crudele lucidità” delle poche prose comprese in quella raccolta di versi. L’inclinazione di Maccari alla prosa poetica trova ora compiuta espressione nella sua nuova plaquette, Contromosse (prefazione di Luca Lenzini, postfazione di Giuseppe Di Bella), la cui seconda sezione – con la sola eccezione dell’Ouverture senza pudore lirica, che la inaugura – è interamente composta da prose. Si tratta sì di prose poetiche, contraddistinte però da una poeticità diversissima da quella delle canoniche prose liriche: per la scabra asciuttezza del dettato, queste prose sembrano piuttosto avvicinabili allo stile di Federigo Tozzi (a cui Maccari sembra riallacciarsi anche per una certa modalità di sguardo sul mondo animale), o a quello di un autore oggi ingiustamente trascurato: Romano Bilenchi (si ricordi che Maccari è il presidente dell’Associazione intitolata al narratore toscano).
Ma qual è il tema della sezione prosastica di Contromosse? A tenere insieme i frammenti di Maccari è innanzitutto il luogo in cui sono pronunciati, cioè la piazza (si intitolano per l’appunto Pensieri in piazza): una piazza simbolicamente circolare, che diviene una specola privilegiata per osservare uomini, animali, cose, variazioni atmosferiche. Gli incontri che si verificano nella piazza sono in realtà vere e proprie epifanie, come quella di Un vecchio che traversa la strada: “Il vecchio mi fece un sorriso dolcissimo. Continuava a scusarsi. Si scusava cl mondo intero. Anch’io sorrisi: mi scusai di far parte del mondo, dei suoi nemici”, o di una giovane coppia (Due):”Ma si ameranno veramente? […] Sarà capace lui – o lei – di vederla – o di vederlo – invecchiare?”.
Il sentimento di inquietudine esistenziale che impronta la sezione prosastica domina anche la prima parte della plaquette, quella più propriamente lirica (peraltro anche in questa sezione compaiono tre prose). Dagli splendidi versi di Niente di me emerge una singolare forma di nichilismo filosofico, che non concede margini per nessuna forma di riscatto: “E non c’è addio, non c’è morte che redima. / la resa è una tana, il riposo un recesso”. Con una lingua poetica impeccabile, che sembra aver assorbito il meglio del nostro Novecento poetico, Maccari tratteggia un universo antropologico decaduto (Personaggi al tramonto), che compromette inesorabilmente anche gli esseri più immacolati (si legga l’esemplare apologo Cigni). Nessun umanesimo è ormai in grado di offrire antidoti efficaci a questo desolato scenario; le uniche possibili “contromosse” rimangono forse quelle della volpe, nella quale l’autore confessa di rispecchiarsi: “Ogni giorno assecondare il nostro istinto, e sempre meno docili, più attente le prede che ci dominano con la loro carne sapida di paura. Ficcare i denti in un cuore in tumulto: è questa la droga dei nostri tempi grami.”
di Raoul Bruni
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