Il Silenzioso scorrere del segno.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

 (Montale, Non chiederci la parola, da Ossi di Seppia)

Era notte fonda quando cominciavo a scrivere cercando di ascoltare il rumore delle parole sulla carta, lo scorrere veloce e sussurrante di memorie e sentimenti espressi con l’impeto e la timidezza dei primi immaturi abbozzi poetici.

Intorno il buio. Solo il cono di luce di una lampada sullo scrittoio di vecchio legno nel silenzio, restituiva il colore blu dell’inchiostro a tutte quelle parole che andavano semplicemente troppo spesso a capo.

Parole che si organizzavano da sole in un unica e irripetibile trama disegnata in maniera imprevedibile dal vago desiderio di invenzione che trasformava il suono sommesso dello scivolare sulla carta, della penna e della mano, nell’immaginario sussurrio della musa dell’oscurità.

Non sento quel fruscio da molto tempo. È una musica che si ascolta ormai difficilmente, soppiantata dal ticchettio frenetico di tastiere noiose e plasticose .
Ma i segni che riempivano fogli e quaderni, quelli miei e quelli visti e scartabellati di antenati, su pagine ingiallite e fitte di grafie antiche ed eleganti, li ho ancora negli occhi e nel cuore e, probabilmente, non voleranno mai via dalla memoria e la memoria da essi: scripta manent.

Lo scritto rimane, ma anche mantiene in sé i ricordi, li custodisce, li accompagna attraverso lo scorrere del tempo.

Li porto dentro, quei segni, come icone di un’altra vita, di un’epoca in cui i tratti dei sentimenti venivano fissati di proprio pugno e tradivano emozioni e stati d’animo, decisioni e insicurezze non demandate all’informatica, non nascoste sotto l’anonimía seriale di uno short message.

Li porto dentro e li sento ancora linee di confine fra il dentro e il fuori che de-marcano, unendoli in quell’istante che solo la scrittura è capace di eternare, nella sua unicità.

Suggestioni lontane e forse inutili alla modernità.

L’arte contemporanea spesso persegue l’intento di comunicare in maniera universale o, per lo meno, non univoca, nella ridondante ricerca di un messaggio che è già tipico della fruizione estetica di per sé: creando talvolta soltanto confusione, ambiguità, doppiezza, in una moltiplicazione delle significazioni possibili, senza senso.

Tuttavia la ricerca di nuove sintesi comunicative attraverso consolidati strumenti espressivi si spinge a volte verso la realizzazione di opere totali in cui i materiali propri dell’arte si fondono con i segni quotidiani in una rinnovata e funzionante estetica del linguaggio.

È il caso di artisti come Anna Boschi che attraverso una raffinata sensibilità ed un innato equilibrio formale riesce, attraverso l’uso sapiente del significante grafico, a dare nuovo significato a questo antico legame fra scrittura e opera d’arte.

Al contrario dell’atto archetipo dello scrivere che pur nascendo sottoforma di gesto artistico ha dei referenti semantici ben precisi (come ad esempio i geroglifici), il gesto artistico della Boschi, come degli altri artisti che incontreremo in queste pagine, diventa segno iconico il cui significato non si esaurisce nella relazione con ciò che indica o da cui nasce, ma si carica di nuovi contenuti, sempre più profondi, ogni qualvolta viene fruito: il significato rimbalza continuamente sul significante e si arricchisce di nuovi echi (Eco, 1976, pag.84).

È una sintesi originale che non si consuma in una semplice giustapposizione di elementi, ma si realizza in una forma ben riuscita da cui emerge un progetto comunicativo sicuramente di grande efficacia: è ciò che Eco già nel ’62 chiamava Opera Aperta applicando la teoria dell’informazione all’estetica.

Ma il forte contenuto estetico non offusca in questo caso il valore etico di cui l’opera d’arte si fa portatrice, (come vuole sostenere chi tenta di affibbiare all’arte una funzione di mera rappresentazione), ma diventa addirittura mezzo che ci agevola nel trascendere la superficiale degustazione del bello-inutile continuamente propagandata dalla società consumista, per darci una nuova chiave interpretativa di quei valori che nascono nell’interiorità dell’artista, ma che attraverso i segni continui della scrittura divengono filo di sutura delle ferite inflitte alla nostra sensibilità dalla futilità dei messaggi da cui quotidianamente siamo trafitti.

Non parliamo, quindi del segno certo della retorica pubblicitaria, della formula perfetta che può aprirci qualsiasi porta del mondo dell’immagine, ma del tratto malfermo della mano sul foglio o sulla tela, della scrittura che non copre ma rende trasparente il messaggio di un artista, della parola che solo ci può dire ciò che non siamo, ciò che non vogliamo…

Bibliografia
Umberto EcoOpera Aperta, Tascabili Bompiani, Milano, 1976
Eugenio MontaleOssi di Seppia, Mondadori, Milano, 1991

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Articolo pubblicato su con-fine art magazine n.3 – settembre 2006 

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