Ogni volta che leggo un romanzo dello scrittore napoletano Sergio Saggese – lo seguo dai tempi dei “Racconti azzimi (Compagnia dei trovatori, 2006)” – mi chiedo come mai le grandi case editrici non lo pubblichino: ma la risposta che mi sono dato non depone a loro merito…
Ora c’è in libreria il suo ultimo noir “Il suonatore di pietre (pagg. 142, euro 10.99; GoWare edizioni)” che mi conferma nell’idea che oggi in Italia di scrittori istintuali come Saggese non ve ne siano.
C’è Sandro un professore napoletano che insegna materie musicali in una scuola cittadina, ma che viene dalla provincia magico contadina di S. Anastasia. Per arrotondare il magro stipendio il nostro suona i piatti nelle bandacce di paese per le feste religiose. Ha perso i genitori e vive con la nonna amorevole. In un viaggio da precario in Vesuviana un giorno riconosce Mattia-Mulignana un suo antico compagno di giochi che è uscito dal riformatorio dopo avere ucciso suo padre ed ora si traveste ed ha guadagnato un soprannome eloquente: la Rossa.
Sandro che in un primo momento non si ripresenta, sogna pasolinianamente la sua morte, che poi in seguito si verifica, ma non con gli stessi caratteri nella realtà. Inizia allora la sua indagine – passando dalla curiosità alla passione – e si fa aiutare da Luca Cipriasi un ex della Mobile ora alla Scientifica. Le loro peregrinazioni li portano a scontrarsi con un sottobosco camorristico tra Barra e Cercola e Sandro interpreta i vari scontri con questi bravi odierni servendosi dei caratteri degli insetti presi a prestito dall’entomologia.
Lasciando come mio costume – quando leggo un giallo – le concatenazioni logico-deduttive ai lettori voglio solo aggiungere – ripetendomi – che Saggese mi ricorda il primo Erri De Luca: quello che dopo una vicenda narrativa esplodeva quasi a commento con una massima di vita che ti faceva rimanere lì a pensare. Bellissime quelle considerazioni che Saggese fa dell’attesa e della differenza tra immaginazione e realtà e tra sogni e quest’ultima.
E Napoli? “E’ una città questa dove quelle dei morti ammazzati non sono ferite ma feritoie sull’Assoluto, dalle quali nessuno di prende la briga d’affacciarsi”.
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