Non credo che sia sempre necessario davvero capire che cosa un’opera d’arte significhi. A volte basterebbe semplicemente disporsi a sentire, cercare l’empatia con l’espressione del significante, per non avere più la necessità di tradurre in parole quel significato sotteso.
L’arte contemporanea è una fabbrica di traduttori di codici impossibili che cercano di mettersi tra noi e lei, utilizzando spesso chiavi false, per decifrare messaggi che talvolta non esistono, aprendo porte di stanze sbagliate e vuote che cercano disperatamente di riempire con fragili suppellettili rubate qua e là, in giro per questa casa in cui prima o poi tutti entriamo: la critica.
Il voler a tutti i costi decifrare cosa l’artista avrebbe voluto comunicare, a volte ci fa perdere di vista il semplice e banale piacere della fruizione estetica: guardare, toccare, e godersi il senso della percezione dei sensi, la forza dell’equilibrio, l’energia che l’opera sprigiona e che invade il nostro spazio prossemico nostro malgrado.
Se la smettessimo di rincorrere, con l’accellerazione propria di questi tempi, parole e categorie, ricominceremmo a vivere diversamente (e forse con più lentezza) il nostro rapporto con il mondo dell’arte.
Ma ci muoviamo in un contesto dove tutto deve essere comunicato, spiegato e spiegabile, dove l’istinto deve essere sempre ricondotto ad una funzione o almeno ad un’intenzione.
Ciò non toglie che tantissimi artisti si sforzino di creare un proprio codice, riconoscibile, seriale, interpretabile da tutti. Una cifra stilistica che attraverso il tempo ci permetta di ricostruire la storia e le motivazioni di un percorso chiaro, che dall’enunciazione di una propria ipotesi attraversa tutte le fasi della dimostrazione fino ad aquisire validità e diventare tesi condivisa.
Sono approcci, mezzi e codici differenti. Ma è proprio questa la ricchezza dell’arte: le differenze.
Lasciamo che ci siano sempre più linguaggi, sempre più stanze da aprire, lasciamo l’arte libera di parlare da sola e raccontiamo solo quello che gli artisti ci raccontano, perché sono solo loro i veri custodi del messaggio o del niente che vogliono (o non vogliono) comunicare al mondo.
Lasciamo che il silenzio rimanga silenzio e che le porte di cui non abbiamo le chiavi rimangano sigilli di stanze che spesso è meglio lasciare chiuse.
Soprattutto, evitiamo di cercare un passepartout che possa diventare chiave di ogni possibile codice: perché non esiste!
Gino Fienga
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