I palazzi mi si curvano addosso con il loro carico di panni appesi ad asciugare sui fili di ferro agganciati alle barre metalliche che sono i bracci delle finestre, interrotti in un abbraccio a metà colla finestra omologa. Sono giganti lunghi come la strada di cui sono piantoni, che è un vicolo a una corsia in cui mi figuro dall’alto indifeso come un soldato sotto il tiro di un cecchino munito di fucile di precisione nascosto all’interno di un campanile. La gente che mi passa accanto e che mi sfiora non mi protegge colla sua carne accaldata. Quelle pietre erte a difesa dei pedoni sono le lapidi che tutti noi ci meriteremmo. Napoli si ingarbuglia come un esaminando impreparato; si torce su se stessa mischiando chilometri su chilometri di viscere piene zeppe di materia organica di cui riesce ad espellere solo la minima parte. Che va a infettare altre zone del Bel Paese e ne è infettata a sua volta, trasformandosi in un ibrido di cattività e di estraneità. Dio ce ne scampi. La gente che incrocio in questa giornata di sole magnifico che proprio non ce la fa a farmi appiccicare la camicia sulla schiena nonostante disegni chiazze di sudore sotto i pettorali e sulle costole ha la luce negli occhi e la musica nella voce di chi sta in pace con se stesso e non chiede null’altro alla vita se non di viverla serenamente. Se il mondo intorno a essa brucia non è un problema suo. La guerra è comprensiva di partenze e di ritorni in un gioco che strema. La cappella è situata in una stradina laterale alle spalle dell’obelisco, dentro un portone tutt’altro che appariscente a compensazione del tesoro che racchiude. Tanta beltà che mi crolla addosso tutta assieme non è sopportabile per i miei occhi abituati al buio; per sfuggirvi e riprendersi un minuto essi frugano nella borsa alla ricerca del telefonino da spegnere sotto l’invito dello zelante custode. Che non è solo: a guardia dei monumenti ce ne sono altri tre-quattro come lui, agghindati come lui, parlanti la medesima lingua gentile ma ferrea di chi sa con certezza da che parte sta e quale ruolo ricopre; per maschere di tal fatta non esistono appunti ai margini della gabbia; essi procedono coi paraocchi come muli che trainano carretti stracarichi di frutta. Il marmo bianco mi cola addosso come manna dal cielo; due occhi sono pochi per trattenere tanta magnificenza. Penetro la pietra, individuo linee e congiunture e sfumature; percorro le incisioni sulle lapidi come se fossi dentro un labirinto. Il silenzio che cade tra la statua che osservo e me è la linea di congiunzione tra l’appagamento dei miei sensi e la mia anima mortificata. Ciò che sto compiendo è un tuffo nel passato che mi rigenera le carni. Bisogna che mi concentri su una scultura per volta, che legga sul libretto che tengo spiegato sulla punta del naso come un prete curvo su un breviario per comprendere le intenzioni della mente e della mano che l’hanno generata. Il Cristo velato, scolpito divinamente da Giuseppe Sanmartino, è un mistero che mi fa gettare la spugna della ragione e l’altare maggiore è la mano invisibile che me lo offre in pasto per farmi vergognare della mia pochezza di essere fallibile e soggetto al giudizio finale. Al cospetto di tale ingegno mi sento miserrimo e scontato come i giorni che filano uno dietro l’altro sul calendario offerto dal pastificio Garofalo appeso nella cucina dei miei. È motivo di scoramento e invito alla conoscenza. In un angolo la rete del Disinganno, opera di Francesco Queirolo, che ingabbia il padre di Raimondo de Sangro, è quella che so perpetua su di me; io però non sono così fortunato da meritarmi angeli tanto gentili che me la tolgono di dosso. La Pudicizia velata di Antonio Corradini, dedicata alla prematura scomparsa della madre del principe, è struggente come un neonato che respira attraverso il primo vagito. Sopra la mia testa la volta è un abbraccio esplosivo di colori in cui non so dove far partire lo sguardo; vorrei essere risucchiato nel bianco dove è diretta la colomba che tiene il triangolo nel becco. Raimondo de Sangro, ideatore e committente di questo tesoro, sta racchiuso in un mausoleo e mi guarda con una faccia mezzo cancellata dal tempo inclemente. Nei sotterranei gli scheletri di un uomo e di una donna aggrovigliati in vene che paiono fili elettrici restituiscono il familiare terrore ai miei occhi. Temo di andare in paranoia ma resto in piedi. Il settimo principe di Sansevero non mi svelerà mai la reale utilità delle «macchine anatomiche» che ha commissionato al medico Giuseppe Salerno. In fondo è giusto così. Una Madonna con Bambino mi ridona grazia e leggerezza mentre lo spezzone di pavimento labirintico, che mi ricorda quello di siepi dell’Overlook Hotel nello Shining di Kubrick, mi fa ripiombare nell’oblio che serbo gelosamente in me. Si può alternare pace e angoscia in un battito di ciglia solo se si vive a braccetto con entrambi. Ho passato un paio d’ore nella cappella reggendo alla pressione di punta di lama che mi premeva alla base della schiena male in arnese e ho imparato che l’arte generata da mani umane è quanto di più si avvicini alla gloria di Dio.
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