Mentre scrivo queste ultime righe, in chiusura di un percorso decisamente multietnico fra segni parole linguaggi, per una volta uniti pacificamente insieme a ragionare di arte e di vita, una pioggia di volantini israeliani di avvertimenti sta cadendo su Beirut e dintorni.
Può apparire ‘strano’ in una guerra moderna che qualcuno possa semplicemente scrivere al popolo che sta ‘offendendo’.
Nelle migliaia di volantini intitolati ‘Ai cittadini libanesi’, scritti in lingua araba e firmati “Stato di Israele”, si legge: «Per quale motivo Hassan Nasrallah ha attaccato lo Stato d’Israele? È per liberare i prigionieri libanesi in Israele? Era possibile per Hassan ottenerne il rilascio da lungo tempo con le trattative, invece che portare la distruzione in tutto il Libano. Hassan – si legge ancora nei volantini – si è lanciato in un’avventura pericolosa, senza ottenere niente. Hassan scherza con il fuoco ed è il Libano che sta bruciando. Hassan – concludono i volantini – ha scommesso sul vostro futuro e così siete voi adesso a pagare il conto».
E intanto il governo israeliano da il via libera ad un allargamento dell’offensiva, pronosticando almeno un altro mese di guerra.
Gli anni non cancelleranno l’indignazione e la paura di questi giorni e probabilmente queste parole, questi fogli di carta volanti li vedremo un giorno attaccati su tele o usati come media attraverso i quali ‘fare arte’.
Dobbiamo però chiederci se c’è un limite oltre il quale l’arte non può e non deve andare: l’immagine della foto di una ragazza in mezzo alle macerie sembra dire che quello è tutto ciò che rimane di un’intera famiglia dopo la violenza delle bombe israeliane. Ai più potrebbe sembrare una bella foto, una di quelle da esporre in quelle belle mostre dei fotografi-artisti-reporter come tante se ne sono viste dopo la tragedia delle TweenTowers. Ma c’è una contraddizione di fondo: nel reportage, chi scatta non deve assolutamente mettere in campo il proprio stato d’animo, ma rappresentare, in maniera documentaristica, un frammento di realtà di cui si è fatto testimone trasparente. Non può esserci edonismo in questo, non si può ricercare un senso estetico che sia tale da cancellare la realtà sottostante diventando cinicamente etica dell’indifferenza.
Preservare la memoria delle cose e dei luoghi è un diritto ed un dovere dell’arte, che va ricercato però lontano da facili stumentalizzazioni, in un continuo confronto dialettico fra l’interiorità dell’artista ed il mondo esterno, dove solo l’atto creativo trova il confine su cui camminare, in equilibrio fra l’etica e l’estetica.
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Articolo pubblicato su con-fine art magazine n.3 – settembre 2006
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