Una di queste notti londinesi ho conosciuto l’efficienza: quella del sistema sanitario inglese. Una volta chiamato il pronto soccorso ci s’imbatte in una sorta di paramilitare della medicina, da solo, alla guida dell’auto di servizio, arriva sino alla porta di casa, con la sua borsa luminosa da Ghost Busters, degli anfibi, una velocità da far invidia a qualsiasi aggeggio automatizzato ed una prontezza di diagnosi. Dopo due minuti dal suo ingesso nell’abitazione del soccorso, arriva la chiamata dell’ospedale, per accertare l’avvenuta assistenza. Più che di parlare con la centralinista, mi è parso di interloquire con Marte. Un’overdose di civiltà ben oliata mi ha tramortito. Fu così che il mattino seguente iniziò la mia giornata con domande in merito ai possibili tagli che il welfare, qui dov’è nato, potrebbe subire.
In questi giorni più volte ho incontrato un ragazzo dall’impegno politico ambiguo, che mi ha riservato tanta cordialità, trascinandomi nel mezzo di campagne etiche ed atteggiamenti da gang. Mi ha presentato attivisti rinomati di Londra e spacciatori sul fiumiciattolo di Camden Town. A seconda dei contesti nei quali ci siamo incontrati ha assunto atteggiamenti da musulmano rigoroso o flessibile. Del suo Paese d’origine, l’Afghanistan, ne parla con altalene umorali: “È un posto fantastico, ma te lo sconsiglio. Se vai da straniero ti trattano benissimo, se invece vieni con me, quindi in parte afgano, vieni rigettato”. Quest’ammasso di contraddizioni umane l’ho conosciuto fuori gli uffici di una municipalità di Londra Nord, dove lui si trovava per un presidio contro Veolia ed i suoi affari in questa città. Era una manifestazioni dagli intenti duri, ma lo stampo era pur sempre british, con volume moderato dei cori, il dialogo costante con la polizia per cercare di capire fino a che punto potersi spingere, in una cornice di strade luccicanti e pullman a scorrimento normale. Dopo questo incontro ce ne sono stati una lunga serie, che per l’appunto seguivano la sua schizofrenica vita, nella quale a volte mi offriva valanghe di alcol ed altre invece le rifiutava perché fedele al suo credo. Tra i commenti alle donne di periferia, all’apartheid imposta in Palestina dalla Veolia, alle visite alle palestre di boxe di Totthenam , alla frequentazione di librerie di quartiere, abbiamo dato continuità alla nostra conoscenza. In posti disparati. Tutto ciò fino allo scoppio dell’indegna guerra di Gaza(Novembre 2012). La manifestazione che si è tenuta dinanzi l’ambasciata d’Israele ha interrotto il nostro idillio. Il fiato trattenuto nel petto, ingoiato da una distesa inquietante di bandiere, compatte da un lato contro l’altro, spezzate dal cordone di polizia, mi hanno disorientato, forse avvilito. La sensazione datami dagli schieramenti è che sono addirittura peggiori degli scontri, le convinzioni più deleterie delle tempeste e le prese di posizioni da stadio come un vino divenuto aceto. Il corteo, organizzato per portare solidarietà alle vittime di una guerra riscaldata con la dicitura di difesa del territorio israeliano, si è trasformato in una lotta allo slogan più incisivo. Dinanzi l’ambasciata, in risposta, si sono radunati cittadini originari e non d’Israele, per controbattere le ragioni di questa guerra, in lotta contro i terroristi sempre più anonimi e da un aggettivo ormai abusato oltre ogni buon senso. Dall’altro lato stessa cosa, perché Londra non è dei londinesi, è fatta di tutti quelli arrivati qui, accolti o meno, realizzatisi o arrangiatisi, ma che comunque sono essenza fondamentale di questa enorme giostra che è la capitale della regina. Io mi porto da un lato e l’altro dello schieramento. Faccio domande ai sostenitori di Benjamin Netanyahu, per poi scavalcare il cordone poliziesco, subire una perquisizione ed immergermi nella folla pro-Palestina. Il mio vecchio amico afgano ha visto tutti i miei spostamenti e dopo un primo saluto affettuoso inizia a raffreddare i suoi toni, per poi sparire completamente dalla mia vita, lasciandomi solo nei sobborghi di questa puttana senza latte che è Londra. Arrotolato da una parte tra gente che coscientemente porta il suo dissenso alla guerra, denunciando gli abusi nei campi occupati e dall’altra da ragazzini che invece rivendicano le maniere migliori per contestare. Mille gruppi differenti pro-Palestina, come se ci fossero motivi disparati per contrastare l’oppressione o la violenza subita. Come se le bombe, le stelle sostituite dai lampi rumorosi, la fuliggine, i mattoni delle case sfaldate, l’odore di morte nelle narici, il mare che da riparo è divenuto muro, avessero soluzioni multiple, come se la ricetta la si possa trovare in uno slogan. Ecco non mi piacciono gli slogan, non mi piacciono le bandiere, non amo gli schieramenti. Per quello ho taccato entrambe le sponde della manifestazione: incontrare le voci differenti, senza stare nel mezzo, ma godendo dei contatti. Mi piacciono le persone, gli errori: preferisco i lividi ai proclami. Intanto a chi ha la retorica migliore si gioca facile, ma a Gaza, anche se la purezza del mio amico contraddittorio è stata salvata, in queste notti la luna non sarà l’unico riflesso nel mare, gli spari si accoderanno agli echi delle motivazioni ed a chi ha le migliori.
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