A ben guardare l’edificio che ospita il MAST a Bologna restituisce di più il senso della fortezza inespugnabile che del ‘ponte’ verso la comunità.
Provo ad entrare come se fossi un comune passante, un abitante del quartiere che un sabato mattina qualsiasi vuole fare un tuffo nell’arte e godere liberamente di questa grande risorsa messa a disposizione della cittadinanza dalla signora Seragnoli.
Ma non è così semplice: due bodyguard fanno cancello davanti alle enormi rampe di accesso che conducono alla Gallery dove sono diretto per visitare la mostra sul Capitale umano nell’industria e mi invitano a passare attraverso un piccolo container ad uso filtro per ‘registrarmi’. Registrarmi??? E perché mai devo lasciare i miei dati personali per vedere una mostra? Niente da fare, o così… o a casa.
No, non posso tornare a casa, ho fatto 54 kilometri per arrivare qui, e poi la mia amicaLucia Crespi direbbe che le ho tirato buca per l’ennesima volta. E sia, passiamo alla gogna della registrazione.
Entro nel container dove una ragazzina, di certo poco contenta di dover lavorare anche di sabato mattina, mi accoglie in maniera molto sgarbata dicendo che ‘non sono ancora pronti’. Le chiedo se aprono alle 10.00 ed eventualmente quanto c’è da aspettare visto che vengo da lontano e ho un po’ di premura. Lei con piglio assai sgodevole mi ribatte che i suoi due orologi portano le 9.57 e che devo aspettare che siano le 10.00. E basta!
Mi vergogno un po’ per lei e per la sua incapacità di essere accogliente e per fortuna mi squilla il telefono che mi toglie dall’imbarazzo di doverle far notare la sua maleducazione. Terminata la mia conversazione sembra che finalmente sia disposta a concedermi ‘aurienzia‘ per la raccolta dati: nome, cognome, indirizzo, email… provo a dirle sommessamente che i miei dati li hanno già – anche perché sono stato invitato – ma non importa, vuole sapere proprio tutto. Si, sono alto un metro e ottanta e di scarpe porto il 45 anche se non sempre. Perfetto, l’identikit del visitatore è completo.
“Adesso può entrare” mi dice senza sforzarsi di sorridere. Grazie! e penso tra me e me che entrare al Quirinale sarebbe stato meno complicato, e con questo spirito mi avvio verso la sommità del ponte levatoio. Conosco la strada, in realtà da quando il MAST è stato inaugurato non mi sono perso una mostra perché trovo la fotografia industriale di grande fascino oltre che di grande interesse documentario; senza contare che trovo davvero intrigante il lavoro che gli architetti dello Studio Labics di Roma sono riusciti a fare in questo luogo che – se non tradirà le premesse e si aprirà davvero alla città – sarà di certo un esempio unico di rapporto impresa-cultura-territorio.
Per fortuna le ragazze all’ingresso della Gallery sono un po’ più accoglienti e attraverso con sollievo la prima parte dell’area dove si rimane rapiti dall’esperienza tecnologica, in un vortice di sperimentazione e di gioco che chiunque abbia un minimo di propensione per la meccanica e per gli ‘effetti speciali’ potrebbe perdersi per delle ore. Ma siamo qui per la fotografia e allora superiamo ogni resistenza e guadagniamo lo spazio espositivo dedicato alla collezione di MAST.
Il lavoro che sta svolgendo Urs Stahel va al di là dell’effimero e riesce a restituire un’utilità sociale – oltre che estetica – ad un’arte che si sta sempre di più depauperando fra le mani di tanti improvvisati.
Stahel, in questo muoversi fra foto commissionate, rubate e a volte volute, riesce a dare dignità di opera d’arte a scatti realizzati spesso per altri motivi e contemporaneamente a mettere in luce l’aspetto ‘documentario’ nelle immagini di grandi maestri della fotografia senza tuttavia snaturarne l’intenzione estetica, anzi riuscendo a far si che il dramma (nel senso greco di ‘drama’, azione, storia) raccontato riesca a venire fuori con la stessa forza e in egual misura, con un sobrio e lento equilibrio. Questo rende la fruizione delle mostre del MAST un magico momento di sospensione dalla realtà e di riflessione profonda sulla funzione dell’arte e sull’uomo. Si, perché – soprattutto questa volta – è proprio l’uomo il centro dell’attenzione, quel ‘capitale umano’ che è la vera risorsa delle aziende e che ancora troppo spesso è vittima dell’ignoranza di chi non comprende l’importanza della valorizzazione – e non dello sfruttamento – di questa risorsa.
Così attraversiamo il tempo in questo spazio minimale che sale verso la contemporaneità e incontriamo la presenza e l’assenza dell’uomo negli spazi di lavoro industriali, bui bianchi e neri, che si contrappongono alle mega colorate sale riunioni deserte che attendono decisioni e sorti di operai. E poi ci sono le ore, gli strumenti, la fatica, l’in-sicurezza, la vita in comune, storie di ieri forse ancora un po’ di oggi raccontate da ritratti di uomini e macchine dai destini intrecciati e sublimati in istanti inconsapevolmente restituiti alla memoria collettiva.
L’allestimento molto elegante ed essenziale racconta molto con le immagini e poco con le parole. Forse il ‘comune passante’ avrebbe bisogno di saperne un po’ di più e se davvero questa istituzione vuole diventare un ponte culturale e sociale dovrebbe essere un po’ più attenta ad avvicinare anche chi non è propriamente un ‘addetto ai lavori’ e raccontare anche e di più a quelle persone che magari di quelle immagini si sentono anche un po’ protagonisti.
Ma siamo solo all’inizio e la speranza è che il MAST continui il percorso promesso, verso l’uomo e verso la comunità, per diventare davvero una realtà per il bene della collettività in un continuo rapporto virtuoso e creativo fra territorio e azienda, e non rimanga una cattedrale chiusa in un deserto periferico, ma aiuto concreto a farlo diventare terra fertile per coltivare, magari insieme alle nuove generazioni, quello che sembra mancare da troppo tempo dalle nostre parti: idee e partecipazione.
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