Per fortuna ci sono i nostri cari autori che ci regalano racconti, opere che sono alla portata di tutti, e che ci parlano da diverse angolature della nostra storia.
Questa volta tocca a Lorenzo Gioroffi, autore del libro Visioni meccaniche, che ha voluto documentare da dentro la situazione egiziana proprio in un momento storico come quello della Primavera Araba. Buona lettura!
Le narici appiccicate alla polvere del taxi da inalare; il finestrino aperto che non apre ad alcun movimento d’aria, se non ad afa, smog e cartelli stradali spiantati ed invertiti; automobili su automobili, automobili su marciapiedi, persone su cofani; autobus intasati; il tassista che sorseggia tè mentre il suo bicchiere traballa, prima di aspirare un’altra sigaretta ed intonare un verso del corano che dalla radio rutta in continuazione. Si affianca un altro taxi, di colore però nero, che alza la parte destra su di un marciapiede. Da questa vettura però nessuna rima religiosa in arabo classico, ma canzoni con ugola apertissima ed un ud elettrificato. Sin dai finestrini arrivano venditori ambulanti o spacciatori di tè, con cappelli piumati, scarpe a punta e narghilè sulle spalle. Ragazzine, velate o meno, se malauguratamente si trovano ad attraversare la strada, devono subire un verso di approvazione/seduzione dagli automobilisti: una sorta di bacio, richiamo per animali. Strade larghe dentro le quali s’infilano viuzze che creano angoli infiniti, da cui partono scenari spaiati; discussioni che sembrano sull’orlo di risse, distese di mercati intrecciati, tavoli da cafè su marciapiedi, urla varie a chiamare prestazioni, pezzi di taula e abbracci sinceri tra persone subito amiche. Manifestazioni con slogan, ragioni, provenienze e durate multiformi dietro ogni spicchio di città, ogni giorno, in particolar modo il venerdì ( il sabato mattina è l’unica pausa dal baccano di questa città: il Cairo, che da qualche settimana sto osservando).
Ora sono diretto al Press Center per sapere cosa ne è stato del mio permesso, utile a varcare Rafah, il confine che spinge dentro Gaza. Il sequestro di sette poliziotti di dogana egiziani, da parte di contrabbandieri, a volte jihadisti, altre furfanti, altre ancora rivendicatori dei diritti dei beduini nel Sinai, ha bloccato il mio viaggio, in questo limbo che è un caos pronto ad esplodere. Arrivo col sudore, un peso nell’animo e la consapevolezza di star vivendo un momento storico per le relazioni egiziane-palestinesi, ma non solo. Dopo indicazioni mozzate nell’ingresso del Press Center, raggiungo l’impiegata che è in possesso del mio permesso. In questa stessa mattinata hanno rilasciato i poliziotti ed hanno riaperto quindi i confini, chissà per quanto e chissà fin dove. Tra le mani stringo il mio foglio di via e nell’altro il modulo della Farnesina che mi chiede di dichiarami volontario nel varcare quei confini, sconsigliati dalle autorità italiane. In tale attesa inizio a sentire fratelli le persone che con canti facevano sentire la propria presenza in qualche piazza, o rischiare l’arresto perché in manifestazioni contro la violenza sui minori da parte della polizia, o semplicemente perché ospite in case, letti, cene, chiacchiere e vite egiziane di famiglie trapanate da dittature e rivoluzioni.
Riempio di numeri di telefono il taccuino, imparo la pappardella da dover riportare ai controllori durante il viaggio, nella cui durata dovrò mostrare la documentazione, da trascinare fino all’attesa al valico di Rafah, con la storia contemporanea che mi passa di fianco.
Sono giorni di ebollizione in Egitto e non solo per quello che succederà nella penisola del Sinai, ma per tutta la vita politica, cambiata con la caduta di Hosni Mubarak, trasformatasi con le elezioni di Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, e con le delusioni di una democrazia che si scontra sempre con gli abusi di potere. Da qualche settimana si è ritornati insistentemente in piazza, per chiedere la deposizione del presidente Morsi, con lo spauracchio dell’aiuto da chiedere ai militari: ciò aleggia su tutto il fronte delle opposizioni alla Fratellanza. Ci sono bloggers, giornalisti ed avvocati che soffrono col carcere, denunciano la repressione della Fratellanza, ma ci sono anche amici, che ormai considero fratelli, che sono convinti di dover dare fiducia a Morsi, perché il tempo di migliorare la Costituzione c’è e perché le urne hanno decretato già qualcosa: sempre meglio dell’esercito. Tutte le discussioni affrontate in notti sudate, in distese di deserto, in confini che si allungano in ghetti come Mokattam, dove una minoranza ricicla a mani nude, o a Tora El-Balad, quartiere povero e con molti ragazzini seviziati dalla polizia, al Tak3eba, dove bere infiniti tè e fumare tutto il giorno, i gas di Piazza Tahrir, sembrano aver creato una grossa bolla, in cui l’Egitto sprofonda in una dannata crisi economica e sociale, per cui bisogna affidarsi ora al Fondo Monetario Internazionale, ora alle promesse a stelle e strisce, ora ai partiti religiosi del Medioriente.
Tutti mi dicono che questa bolla è pronta ad esplodere, con un atto secondo della rivoluzione ed io però in quest’istante ho tutte le carte in regola per poter lasciare l’Egitto e raggiungere Gaza: cosa fare? Prendo la documentazione e ritorno nella casa che mi ospita, a pochi passi da Piazza Tahrir, in quello che un tempo era un punto nevralgico per i turisti che volevano visitare il museo egizio e che invece ora vive di polvere, sole asfissiante e venditori di pergamene che ci provano ogni giorno a smollarti qualcosa. Quest’oggi mi faccio abbindolare da uno pseudo artista, che mi mostra i suoi murales sul retro di Piazza Tahrir, dopo ciò, attacca con tutte le sue teorie contro la Fratellanza e per essere ancora più credibile mi dice di dover mostrarmi la sua bottega, danneggiata dai sostenitori dei Fratelli Musulmani. Ecco che tutto si complica, la trappola è partita e ci sto entrando volontariamente, perché in un limbo decisionale che mi seduce. So già che mi porterà nella bottega, che ha si i vetri rotti, ma chissà per cosa, mi mostrerà alcuni papiri, mi chiederà il nome di mia moglie e della mia famiglia, poi proporrà qualche incisione. Intanto mi presenta alcuni suoi figli, la figlia, a festa in un abito rosa, prossima al matrimonio e poi ecco la proposta amicale dell’acquisto di qualche sua opera. Immediatamente ritorniamo sullo stesso binario di comunicazione: io non sono lì per comprare e lui è stato bravo a raccontarmi la sua vita, le sue lotte di denuncia, per poi ricavarci qualcosa. Beviamo un altro bicchiere di tè assieme, poi, dopo aver compreso la mia riluttanza ai papiri, mi fa riaccompagnare a casa da un suo genero. Salgo a bordo di un motorino, con tanto di radio incorporata, giusto per non dimenticare i versi di musica pop egiziana. A tutto volume ed a tutto gas partiamo, con il vento del Cairo che mi passa sul volto e mi trapana i pensieri. Non mi faccio lasciare proprio sotto casa, per non avere problemi di ulteriori insistenze. Ci salutiamo e resto in attesa di un mio fraterno amico al Tak3eba.
Parliamo e lui mi lascia tutti i contatti necessari per alloggiare una notte a Rafah, da un suo caro amico. Pur essendo solo, in queste miliardi di strade, qui non ho mai neanche solo immaginato di dormire una notte all’addiaccio, perché il senso supremo di ospitalità è un qualcosa che appartiene a tutti quelli che ho incontrato. Parliamo delle serate passate assieme sul Nilo, a cantare e ballare sulla feluca, ai locali sui tetti che clandestinamente vendono alcolici, alle ore in biblioteca, ai passaggi in taxi, al koshary mangiato sui marciapiedi, alle infezioni intestinali che ho dovuto subire ed alle manifestazioni in cui mi sono intromesso da solo, in cui ho rischiato il linciaggio, altre volte vissute assieme a lui ed al mio zaino pronto a riempirsi di nuovo per lasciare tutto ciò. Si, per raccontare Gaza, tutti gli altri muri da abbattere e le fottute vite ingoiate in un conflitto assurdo che nega dignità all’umanità palestinese. Ripartirei comunque anche da lì, ma questo pomeriggio mi sento molto curioso. Sento di dovermi sentire egiziano, aspettare il destino storico di questo Paese.
Passa la notte, squilla il telefono con la richiesta della Farnesina di firmare la lettera di sgravio e la mattina invece ripongo lo zaino. Resto al Cairo e rinuncio al mio permesso, per sentire le sirene di ambulanze che rimbombano, gli spari da manifestazione, i megafoni, le raccolte firme e nuove rivoluzioni che si accavallano, mettendo definitivamente in cantina la definizione di Primavera Araba.
Mohammed Morsi è stato poi deposto, arrestato ed ora in attesa di sentenza, il generale Abdel Fattah Saeed Hussein Khalil el-Sisi ha preso il comando del Paese, con i militari che sono tornati a decidere il destino dell’Egitto. Alcuni amici che avevano avuto problemi con le forze di sicurezza e con processi per la propria libertà di opinione sono stati scarcerati, altri invece ora vivono la paura della reclusione. I processi militari sono rimasti, i soldati circolano nelle università e tutti gli oppositori dei Fratelli Musulmani, che però avevano già fatto resistenza ai militari con Mubarak, ora con Tamarod (la campagna che ha destituito Morsi) hanno visto cadere un Governo che non li garantiva, per far tornare quelli che sono stati i protagonisti di anni di dittatura. Io intanto ho portato il mio zaino altrove, smarrendo ancora una volta il senso del racconto: tanto, pur essendo curiosi, il mondo ripete a stritolare la ragione. Penso alle midan d’Egitto ed a tutti gli amici che mi hanno accompagnato in quelle settimane, ma che sulla loro pelle continuano ad accompagnarsi nella vita egiziana, mentre io son salpato altrove, rifugiatomi in una curiosità tanto estemporanea, quanto inutile.
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Oggi fa caldo,e la temperatura caldo umida mi accompagna nella lettura di questo racconto ,che mi descrive i colori ,i suoni e mi fa sentire la polvere ,che si appiccica per la calura, sulla pelle.Partire o restare dubbio dell’esistenza…che mi pone l’interrogativo di Hesse :essere o avere?La risposta è raccontare…raccontare .Grazie per il bel racconto