Sorrisi di carta di Mariaelena Castellano

Sorrisi di carta di Mariaelena Castellano

Premo con forza sulla serratura del vecchio baule di cuoio e finalmente, dopo l’ennesimo tentativo, si apre. Non so se sia stata una buona idea portarlo qui, nella mia camera da letto; è piuttosto rovinato e adesso che sono riuscita ad aprirlo, ho sparso un po’ ovunque polvere e frammenti di pellame consumato. Eh no, il tempo non risparmia niente, fa il suo corso e ci invecchia tutti.

Oggi è una di quelle giornate in cui non riesco ad essere attiva, né con la mente, né con il corpo; ho bisogno di fermarmi, di oziare, possibilmente con qualcosa che mi tenga distratta dal pensare. Così, dopo pranzo, me ne sono andata nella soffitta a rovistare tra scatoli e vecchi oggetti, a respirare il profumo del passato, per dimenticare le paure del presente. Ogni volta che vado lì, mi dico che dovrei riorganizzare questo spazio sovraccarico di cose; sono consapevole del fatto che sarebbe necessario buttare un bel po’ di roba, ma poi non ci riesco mai. E’ fonte preziosa di ricordi questa soffitta, mi apre un varco temporale nel passato, mi tiene ovattata dalle incertezze del futuro.

Oggi la mia attenzione è tutta per questo baule; non l’avevo mai notato prima, nascosto com’era tra un accumulo di scatoli. Ho subito pensato che potesse andar bene per abbellire la mia camera; così, senza nemmeno sapere cosa ci fosse dentro, me lo son portato con me.

Lettere e cartoline, cornici d’argento annerito, stampe d’epoca e vecchi album fotografici: ecco cosa è emerso da questo scrigno dei tempi andati. Do una rapida spolverata e inizio a sfogliare uno degli album. Mi rivedo bambina, a otto, cinque, dodici, poi dieci anni, in una sequenza di immagini che si fa beffa della cronologia. E’ già  una fortuna averli trovati questi antichi scatti, anche perché i miei genitori non avevano mai dato particolare importanza a queste cose.

Rivedo alcune foto della mia prima comunione e  mi vien subito da ricordare che quel giorno, anche se avevo insistito tanto, non avevo potuto sfoggiare la mia pettinatura preferita: capelli tirati tutti all’indietro e annodati in una treccia, lunga e spessa.

«Fa caldo, Amanda, meglio uno chignon. E poi, oggi sei la festeggiata, serve un’acconciatura più elegante», aveva insistito la parrucchiera, spalleggiata da mia madre. Io mi ero davvero indispettita, eppure nelle foto non ho l’aria imbronciata, anzi, sorrido con il mio bel saio bianco, il giglio, la catenina con il crocifisso.

Alzo lo sguardo dalla foto e vedo la parete vuota dietro al letto matrimoniale: la grande croce di San Damiano non c’è più; l’ho rimossa l’altro giorno, in preda a uno dei miei deliri agnostici. Apro il cassetto del comodino dove l’avevo nascosta e l’appendo nel suo posto di sempre. Ormai sono abituata a questa caotica alternanza tra i momenti di sconforto e quelli di ottimismo. Scendo nell’abisso della disperazione per poi risalire con gran fatica, perché l’imperativo è non lasciarmi sopraffare dagli eventi. Anche quando la battaglia sembra persa, quando la mia armatura di ferro viene smontata un po’ alla volta, avverto l’obbligo di recuperarla, pezzo per pezzo. Indosso di nuovo elmo e corazza, afferro il grande scudo dietro cui ripararmi e tento di andare avanti. Provo anche a sorridere. Come in queste foto, dove la rabbia per la mancata treccia è stata abilmente camuffata dalla mia aria felice. Quanto ci tenevo ai miei capelli! Sin da piccola, rifiutavo di farmeli tagliare; li portavo lunghissimi, sempre ben curati, così lisci e di un intenso nero corvino. Li raccoglievo in una treccia che era diventata un po’ il mio segno identificativo. L’ho portata fino ai sedici anni, quando per la voglia di sentirmi meno bambina, ho preferito farne a meno.

Continuo a guardare le foto nell’album; qualcuna non è attaccata bene e sfugge dalle pagine ingiallite; altre sono stropicciate, consumate dai solchi del dio tempo, sempre in agguato, eppure in qualche modo raggirato dal potere evocativo di questi ricordi in bianco e nero. Le osservo con attenzione e rivivo antichi momenti; ecco, prendono sempre più consistenza nella memoria, riportano il mio albero esistenziale alle sue aggrovigliate radici.

Feste di compleanno, maschere di carnevale, primi giorni di scuola, recite natalizie: è tutto un trionfo di sorrisi; che poi, mi chiedo cosa avessi da sorridere tanto. In fondo, la mia infanzia non è stata così felice. Ero una bimba un po’ malinconica, poco socievole, chiusa in me stessa, nel mio mondo inventato. Sarà  stato il mio essere figlia unica, chissà.

Eppure nelle foto sorrido sempre, anche con le “finestrelle” del vuoto lasciato dai denti di latte, l’importante era mettersi bene in posa davanti all’obbiettivo; una sorta di regola che ho continuato a seguire negli anni, come dimostrano queste immagini incorniciate e messe in bella mostra qui, sull’antico comò appartenuto ai miei nonni, dove spicca la grande fotografia con un mio primo piano in abito nuziale: la bimba in saio bianco cede la scena all’elegante sposa in veli e fronzoli, allora di gran moda; al giglio subentra il fascio di calle, alla croce di legno lo sfavillante punto luce del diamante e invece del malvoluto chignon, la lunga treccia, impreziosita da elaborati incastri di perline, il giusto riscatto alla privazione subita anni addietro.

«Sei sicura di volere questa treccia?», mi aveva chiesto perplesso il coiffeur, spiazzato dalla mia risposta affermativa.

Quante cornici su questo comò. Dovrei dare una bella spolverata e magari aggiornare l’esposizione con qualche foto più recente. La meno datata è questa con Sara, la mia primogenita, nel giorno della sua laurea; saranno trascorsi un paio d’anni. Anche qui rispondo al comando di sorridere per la buona riuscita dello scatto. Sono abbracciata a lei, che sfoggia toga e cappello, con il fascio di rose rosse in primo piano; sembro pienamente felice, nonostante fossi già alle prese con l’oscura, temibile piovra del mio male, ormai  imprigionata nella morsa dei suoi insidiosi, opprimenti tentacoli.

E allora realizzo che le fotografie non coincidono sempre con la verità; spesso sono una sorta di falsi storici, dove si sorride anche se si ha l’inferno dentro.

«Amanda, mettiti in posa, cos’è quella faccia triste? Guarda qui, ciiis», mi dicevano quando ero bambina, e io mi adeguavo alla richiesta; era quasi un gioco per me, un gioco continuato negli anni, anche da adulta. Ha un suo fascino camuffare i disagi, i pensieri malinconici e le fragilità con un bel viso spensierato, no?

Anche in questa foto sembro allegra, nelle vesti di giovane madre alle prese con i suoi bimbi, Sara e Luigi, all’epoca sette e tre anni; insieme raggiungevano un terzo della mia età.

Prendo il piccolo portafoto per osservarne meglio l’immagine: ostento un’espressione radiosa. E le notti insonni, i capricci di Sara che non voleva fare i compiti, le cadute di Luigi che non stava mai fermo? E le critiche di chi mi giudicava una madre poco severa, che non sapeva farsi rispettare? E il mio perenne senso di inadeguatezza genitoriale o la mia frustrazione per aver lasciato la promettente carriera forense? No, nella foto, niente di tutto questo. Solo una banale scena rubata alla quotidianità domestica: noi tre che ce la ridiamo per venir bene nell’album di famiglia. E un attimo dopo i pianti isterici di Luigi menato dalla sorella, la catasta di panni da stirare, la colite nervosa, il pranzo da preparare.

Sposto il portagioie d’ebano per afferrare la grande cornice in vetro di murano. Anche qui tanta polvere, così nella foto la cupola veneziana di San Marco sembra annerita dal maltempo, più che da questa coltre di odiosi, inutili pulviscoli infestanti. In uno sfondo di piccioni e turisti, in primo piano ci siamo noi: io e Giorgio. Lui mi cinge la vita, io appoggio la testa sulla sua spalla; abbiamo entrambi il volto felice, sembriamo quasi una coppia affiatata, quando invece la nostra storia è sempre stata vuota di emozioni. L’ho sposato ventotto anni fa, giovanissima. Riprendo la foto delle nozze, mi rivedo sposa sorridente, anche se sovrastata da dubbi ed incertezze. La lunga treccia, le calle, il punto luce, le perle; l’abito pomposo, slargato al punto giusto per non opprimere il ventre rigonfio. Mi chiedo spesso se il mio sia stato solo un matrimonio riparatore, oppure era semplicemente così che doveva andare, per assecondare i piani di quello che chiamano destino. Ho mai amato Giorgio? E lui, cosa prova per me? Questo non lo so, ma sono consapevole dei suoi modi poco affettivi, del suo non esserci mai per davvero, nei momenti di bisogno, come in quelli di routine. Una fugace comparsa di facciata: ecco cosa ha rappresentato per me, in tutti questi anni. Mi son sempre ritrovata sola, anche adesso che avrei tanto bisogno di essere incoraggiata, sto invece combattendo senza che nessuno sia veramente al mio fianco. Giorgio è sempre stato così: superficiale, preso dal suo mondo, lontano dal mio. Sara e Luigi, ormai adulti, ma ancora in cerca di una definizione nel lavoro, come nell’idea di formare una famiglia. Credo non abbiano nemmeno capito la gravità  della mia situazione. Meglio così. L’altro giorno Luigi, prima di tornare a Roma, dove vive da qualche mese, mi ha detto: «Mi fa piacere trovarti bene, mamma. Ti vedo in forma, vienimi a trovare presto!».

Bene? In forma? Aspetta che domani mi sottoponga a un’altra infernale chemio e poi mi dirai se sarò in forma o meno, figlio mio. Comunque, preferisco che lui e Sara non vivano a fondo questa mia situazione. Lo ammetto: li ho sempre protetti da quanto potesse farli soffrire, compreso il mio male. Gliel’ho presentato in modo blando, come una sorta d’incidente di percorso, destinato ad essere presto debellato. A Giorgio, invece, le cose son state dette bene: era con me quando i medici, dopo la gastroscopia, hanno diagnosticato il tutto. Doveva andare non ricordo dove, ma l’avevo praticamente costretto ad accompagnarmi. Il responso di quella visita m’inquietava, sarà  stato il mio sesto senso.

«Signora, ha una forma tumorale piuttosto avanzata all’intestino»: queste parole mi sembra di sentirle ancora adesso, mi rimbombano dentro come metallici suoni sordi, impigliati nei miei intricati rovi di pensieri e ricordi Son passati più di due anni, ma ho ben impressa la voce rauca, che con tono greve, ha cambiato per sempre la mia esistenza. Nessuno sforzo di addolcire la pillola, di trovare un modo più opportuno per rendere la notizia meno traumatica. Chissà  quanti responsi del genere saranno abituati a fornire, ma un minimo di delicatezza in più non avrebbe certo guastato. Non che sarebbe cambiata la cosa, ovvio. Avevo un cancro all’intestino, punto. Altro che problemi d’indigestione o di nervosismo somatizzato. Ah, se mi fossi controllata prima!

Mi hanno subito sottoposta a un intervento per asportare una parte dell’organo, insieme alla milza. E poi il ciclo di chemio, con cui convivo da mesi e mesi, senza però riuscire ad abituarmi alle fasi altalenanti delle trasformazioni del corpo e dell’umore.

«Come stai oggi?», mi chiede Giorgio di tanto in tanto; domanda scontata, fatta giusto per sentirsi a posto con la coscienza, con l’illusione di credersi marito premuroso. Ma le parole non bastano e nemmeno quel suo esserci per modo di dire. La verità  è che non c’è mai stato quel gran sentimento tra noi. Forse se l’avessi amato di più, sarebbe stato più presente? Ma no, che cosa sciocca prendersi le colpe altrui! Sei un apatico superficiale, caro Giorgio, ecco. Non mi hai mai resa felice, mai. Tantomeno adesso, in questa fase così difficile. E nemmeno a Venezia, in viaggio di nozze. Rivedo la foto, una delle prime a colori: chi leggerebbe inquietudine e malessere in questa mia espressione così allegra? Nessuno. Son tutti sorrisi di carta quelli delle foto, ecco! I sorrisi reali son ben altra cosa. Magari qualche volta un obbiettivo più veritiero immortala anche quelli, ma, che dire, nelle mie foto vedo solo ridenti menzogne.

Perché mai me ne sono andata a rovistare in soffitta, oggi? Chi me l’ha fatto fare di portarmi questo vecchio baule impolverato? Era anche pesante, tra l’altro. Oggi dovrei starmene a riposo, per essere più in forma domani e invece perdo tempo tra album e cornici datate, che stupida. Mi stendo sul letto, avrei voglia di piangere, ma trattengo le lacrime. Piuttosto, mi rammarico per questi continui momenti di sconforto. Dovrei essere più forte e combattiva, non serve a nulla frignare, lamentarsi. Eppure, quando arriva la tristezza, non riesco a liberarmene; mi sovrasta, frantuma le mie deboli energie, per poi trasformarsi in rabbia furente. E tutti i miei sforzi per essere positiva si sgretolano in mille pezzi, così, all’improvviso; come questi frantumi di vetro di murano, sparpagliati sul parquet della mia camera. Il mio gesto isterico non è riuscito a rompere tutta la cornice, così la foto di piazza San Marco è rimasta ancora incastrata tra i suoi ganci, liberata soltanto dalla copertura vitrea. Colombi, niente più vetro impolverato: ora siete liberi di andarvene, spiccate il volo, lasciate questo scenario da farsa teatrale.

Arriva anche il turno delle foto dell’infanzia; la mia furia devastante, non le risparmia. Le stacco con foga dall’album, tento persino di stracciarle, ma, per fortuna, il cartoncino plastificato di una volta non cede. Alcune sono sparse per terra tutte stropicciate; altre, graziate, sono ancora attaccate alle pagine. Ne osservo una in particolare, prima mi era sfuggita. E’ il mio compleanno, sto soffiando le candeline; non si vedono bene per contarle, ma avrò avuto dodici, al massimo tredici anni. Che tortura rivedere la mia lunga treccia, così lunga, così nera, lucente, una fune tesa di robusti fili corvini. Dov’è finita la mia bella chioma? Mi guardo allo specchio e l’immagine riflessa mi ricorda impietosa la brusca mutazione subita negli ultimi tempi. Pochi mesi mi hanno imbruttita ed invecchiata più di quanto potessi credere. Con alti e bassi, certo, ma non sono più quella di prima, anche quando tento di riprendermi nelle fasi più clementi delle cure terapeutiche. Che brutta la mia faccia, quando capirò che non dovrei più specchiarmi? Non oso pensare nei prossimi giorni, dopo la chemio di domani; già mi vedo gonfia, quasi sento la pelle dilatarsi mentre gli occhi s’infossano tristi e spenti.

L’Amanda che intravedo allo specchio si è incupita ancora di più. E’ pallida, i capelli ormai diradati.

«Valorizzati comunque, cara. Ci son belle parrucche, cappelli, foulard: non abbatterti!», dicono parenti, amici, conoscenti, quando riescono a vincere la remora di avere a che fare con me, affetta dal male dei mali, e si ergono a consiglieri supremi.

Chissà, probabilmente farei anche io così, ma nessuno dovrebbe dirmi come gestire questa situazione. Che ne sanno loro della pena che vivo ogni giorno? Della paura di non farcela, di non poter seguire più i miei figli? Pensassero alle loro voluminose messe in piega o ai grandi problemi dell’influenza stagionale e della casa sempre in disordine. Del resto, sono le stesse preoccupazioni che avevo io, fino a qualche anno fa. Pagherei per riaverle adesso; che poi ero felice prima? I sorrisi di carta annuiscono, ma i ricordi dell’anima negano; puntualizzano che Amanda si è sempre fatta inutili crucci, lasciandosi sopraffare da dubbi e sensi di colpa, col risultato di non sentirsi mai veramente viva. E allora come potrei esserlo oggi, in questa forzata, infinita sosta nel patibolo di un’annunciata condanna a morte? Eppure mi viene da pensare che è proprio in questo presente così lacerato, stia emergendo una nuova linfa fatta di emozioni vere, intense, forti per davvero. Sofferenza, rabbia, sconforto non sono forse emozioni? Sì, eccome se non lo sono; di quelle che scuotono, struggono e poi fortificano. Perché anche questa folle alternanza tra disperazione ed ottimismo, nel delirio dei miei fulminei sbalzi d’umore, in fondo, mi rende viva. La mia condanna a morte mi fa sentire viva, sì.

La temibile malattia mi ha svegliata dal torpore di una sbiadita quotidianità, mi ha catapultata su un filo sottile sospeso nel vuoto. Cammino in bilico, senza dare più nulla per scontato. A volte tentenno, altre procedo spavalda, grintosa. Non voglio cadere nel vuoto. Resto in equilibrio, mi aggrappo alla vita, voglio credere abbia un senso. Anche se dovessi morire domani, tutto avrà avuto un senso.

Il mio “prima” era fatto di obiettivi, sacrifici, continue corse contro il tempo. Il “dopo” no. Adesso passato, presente e futuro s’intrecciano in un’osmosi di sogni, immaginazioni e realtà. La bambina con la treccia dialoga con l’adulta dai capelli diradati. Sono sempre io, in fondo. Mutevole, discontinua, sognatrice. Adesso non più prigioniera dei convenevoli, del dover fare e del dover essere. No, il tempo è troppo prezioso per essere sprecato così. Voglio essere libera di essere come sono, pronta a cogliere tutto con avidità .

Mi riguardo allo specchio.

«Sorridi», mi dico. E la severa austerità del mio volto corrucciato si distende in una smorfia che si avvicina a un vago sorriso.

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