Mi addentro tra le case dei contadini camminando su un sentiero che è il corpo di un serpente in movimento; casupole di pietra e terra battuta sotto i miei piedi. Al di là di reticolati di ferro una capra di pelo bianco-nero e marrone mastica in piedi indifferente al mio passaggio. Il monte Croce è una stella lontana che non brilla contro il cielo candido di questa giornata di sole. All’orizzonte un contadino è chino nel suo campo, mezzo sepolto dalle piantine verdi cui le sue mani hanno conferito la vita. Il silenzio corre tra le case senza farsi sentire. Attività umana è testimoniata dalla biancheria stesa ad asciugare sui fili di ferro che tagliano le facciate delle mura prive di intonaco come righi neri su un foglio di quaderno grigio. Da qualche parte dovrà pur esserci la villa che prende il nome da una cappella ritrovata nel Settecento qui a Castellammare di Stabia, in località Varano. Dalla cabina il custode mi informa che l’accesso dall’entrata principale è negato per i lavori in corso; il braccio di una gru verniciata di verde alla cui estremità corta è assicurato un peso e a quella lunga un carico di materiale edile ruota infernale a una ventina di metri di altezza sopra la mia testa. È indubbiamente un moderno gigante meccanico e monco. Proseguo il cammino e accedo alla villa dal retro, come un esercito aggira il nemico per coglierlo di sorpresa alle spalle. Davanti a me si apre il peristilio; al centro le siepi curate di un verde intenso che brilla sotto la luce e che fa male agli occhi, contornato da gradini in pietra su cui poggiano colonne a metà e poche di cui si possa notare il capitello di semplice realizzazione. Sulla parete sud e su quella est, sotto lamiere moderne che riproducono il tetto dell’antico porticato, resistono alle intemperie e al tempo che passa colori di affreschi, soprattutto rossi e gialli e qualche nero. Al centro della siepe, ad antica altezza romana, si erge una meridiana, lo gnomone arrugginito e stanco che proietta la propria ombra sulle sottili tacche orarie. Sotto la tettoia i lavori di restauro in corso d’opera di una squadra di restauratori che non c’è. Accedo al peristilio grande attraversando uno dei due bracci laterali delimitati da colonne, pavimentato con tassellato bianco e nero, abbellito, tra le basi delle colonne, da fantasiosi giochi di mosaici geometrici che contrappongono chiari e scuri. Sul lato corto in fondo, superati tre gradini con la pedata in marmo, è l’accesso alle dietae; qui è la copia di un cratere con scena dionisiaca e la copia di una statuetta di corvo, nel cui becco è evidente il foro da cui sgorgava l’acqua di cui i romani erano accorti raccoglitori. Uno squarcio nelle mura rivela l’onnipresente opus reticulatum. Su una parete l’affresco di una fanciulla su un’altalena e, sul soffitto, quel che resta della dea Fortuna alata che regge una cornucopia e una palma. Sul lato destro della piscina la prima serie di quattro nicchie in cui spiccano i bassorilievi raffiguranti divinità marine, tra cui Nettuno, il dio dei mari, che brandisce un tridente. Su quello sinistro le restanti quattro, precedute dalla copia in resina del variopinto mosaico ritraente la ninfa Europa rapita da Giove sotto le mentite spoglie di un toro. Alle spalle delle nicchie è uno stretto corridoio parzialmente scavato, il cui passaggio è seppellito sotto un muro di materiale vulcanico che ha il colore e la fattezza di un pezzo di hascisc. In uno squarcio sulla parete del secondo braccio del peristilio si intravede il vano della cucina, che consiste in un ampio piano di cottura su cui si distendeva la brace sopra la quale erano poggiate le pentole in bronzo; sotto il piano di cottura tre archi fungevano da ripostiglio. Lungo tutta la parete si susseguono copie in alluminio e di forma quadrata di raffigurazioni di fantasie di città e di templi circondati dal mare e affreschi originali che ritraggono alberi sfregiati dai graffiti dei Borbone, i quali sono stati così ingordi che hanno depredato secondo i loro gusti mentre quello che lasciavano lo incidevano perché altri non se ne impossessassero. Tuttavia dobbiamo loro la scoperta di questo inestimabile tesoro. Sulle pareti delle dietae sono una serie di affreschi deliziosi: una donna che scoperchia una pisside; una figura nuda; una musa di spalle che ha la schiena scoperta e che regge una lira; Perseo con le ali ai piedi che con la mano sinistra solleva la testa che ha mozzato a Medusa mentre con la destra impugna il gladio; Ifigenia che sorregge il palladio sulla spalla sinistra e che nella mano destra impugna una fiaccola; un amorino in ginocchio che regge una pisside. Al margine del giardino che circonda la piscina l’impronta ritrovata delle radici di un platano è stata riempita di cemento liquido per conservarne la memoria. Più al centro due anfore di grosse dimensioni. Attraverso una porta collocata fuori del peristilio supero il tablinio e raggiungo l’atrium delle terme; al centro di questo ambiente, circondato da quattro colonne in buono stato di conservazione, è l’impluvium, nella cui vasca atta a raccogliere le acque piovane sono due gradini. In alto attraverso il compluvium scorgo il braccio impressionante della gru compiere un lento giro sferragliante sopra la mia testa; il pensiero che il peso che trasporta possa sganciarsi e crollarmi addosso mi trasmette angoscia. Forse non dovevo inoltrarmi fin qui. In effetti sono solo. Prima di raggiungere l’uscita faccio in tempo a gettare un’occhiata nell’adiacente zona termale immersa nell’oscurità.
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